Il Campobasso ha smarrito la bussola. La piazza rossoblù è un’arma a doppio taglio: bella e affascinante ma, al contempo, ‘pericolosa’ per gli addetti ai lavori
GIUSEPPE FORMATO
Una sconfitta di tali dimensioni il Campobasso, davanti ai propri tifosi, non la registrava da 85 anni. Sconfitte deludenti, comunque, in epoca recente non sono mancate: nel 2009, era il 18 gennaio, fu l’Atletico Trivento dell’allora coppia Edoardo Falcione-Marco Meo, oggi massimi vertici dei lupi, a segnare quattro gol al ‘Selva Piana’. In quell’occasione, la partita finì 1-4. Lo scorso 17 maggio, invece, a vincere con un netto 0-3 fu il San Nicolò nell’unico turno dei playoff disputato dal Campobasso al termine della stagione 2014/2015. Sempre il Chieti prevalse per 3-0 nel capoluogo molisano l’11 dicembre 2011, nel torneo di Lega Pro Seconda divisione, quando a decidere l’incontro furono Fiore, oggi al Campobasso e ieri, domenica 27 settembre 2015, all’esordio contro la sua ex squadra, Lacarra e Sabatini.
Un tracollo, comunque, inimmaginabile alla vigilia di una partita, quella contro il Chieti, che si preannunciava ostica, ma nessuno, nemmeno il più esperto e incallito degli scommettitori, avrebbe immaginato che dopo 51 minuti di gioco la formazione teatina avrebbe chiuso la contesa con quattro gol messi a segno.
Uno 0-4 duro da digerire, soprattutto per come è maturato il risultato. Per il Chieti del pur bravo allenatore Donato Ronci, tra gli emergenti della categoria, è stato tutto sin troppo semplice.
Il Campobasso ha giocato per poco più di dieci minuti, prima di entrare in un coma profondo. Un incubo durato 98 lunghissimi minuti, proseguito dopo il triplice fischio finale con i tifosi più incalliti assiepati davanti alla tribuna per contestare, ma anche per avere spiegazioni di una prestazione al di sotto della più grave insufficienza.
Mai come in questa gestione i tifosi sono direttamente interessati alle vicende del Lupo, perché i supporter con la quota all’Associazione ‘Noi Siamo il Campobasso’ sono parte integrante del club. Si aggiunga al denso quadro, che le contestazioni sono all’ordine del giorno nel mondo dei calci d’angolo. Ed ecco che attorno alla squadra, chiamata ad ammazzare il campionato ma che dopo cinque giornate si trova impelagata nei bassifondi della classifica, ci siano solo delusione e contestazioni.
Non è Campobasso a fare eccezione, è l’esasperazione del calcio italiano a dettare le regole. È la normalità ‘anomala’ dello sport nazionale del Belpaese. Nel capoluogo molisano, forse, è tutto più esasperato: un luogo dove, dopo essere stati accolti da trionfatori, sono stati messi alla gogna, in termini e modalità differenti, i vari Molinari, Scasserra, Rizzi e Capone, ovvero tutti coloro che hanno avuto in mano le chiavi della città calcistica dagli anni ’80.
Giocare e fare calcio a Campobasso è un’arma a doppio taglio. Si ha l’opportunità di vivere una grande piazza, che così come dà lustro, prestigio e aria di grande calcio, è anche capace di stroncare le carriere di allenatori, giocatori e presidenti, come è successo nei decenni scorsi, ma molto più semplicemente nel recente passato.
L’elenco è lungo, soprattutto quello dell’irriconoscenza verso i presidenti, che sono coloro che permettono che lo spettacolo domenicale possa andare in scena. E sono in tanti coloro, atleti, dirigenti e allenatori, che hanno lavorato a Campobasso, prima di smettere con la propria professione o, nella migliore delle ipotesi, ridimensionando le proprie ambizioni. Così come nei periodi felici sono in tanti che da Campobasso sono approdati nelle serie professionistiche più importanti.
Il gap di sei punti rispetto alle battistrada Fano e Sambenedettese è tutt’altro che irrecuperabile. Anzi. Domenica prossima, 4 ottobre 2015, potremmo anche star qui a descrivere un meno tre che riabiliterebbe (almeno in parte e dal punto di vista della classifica) questo traumatico inizio. È ovvio che il Campobasso non ha più alibi. E le pressioni si fanno sempre più fitte.
Nel post-partita con il Chieti, a metterci la faccia, insieme, l’allenatore Roberto Cappellacci e il direttore sportivo Antonio Minadeo, mentre la dirigenza, che evidentemente non ha mai pensato di mettere in discussione lo staff tecnico, ha preferito non presentarsi al consueto incontro con i giornalisti. Come del resto avviene di sovente. Come scelta.
C’è anche da sottolineare, comunque, che quest’anno le conferenze stampa delle partite giocate al ‘Selva Piana’, soprattutto in situazioni come contro la Sambenedettese e il Chieti, diventano un calvario. La sala stampa non si trova più nella zona antistante gli spogliatoi e l’ingresso sul rettangolo di gioco, così i protagonisti devono percorrere, prima di raggiungere la location adibita per le interviste, una trentina di secondi a piedi, che in situazioni come nelle ultime due partite casalinghe, con i tifosi assiepati davanti alla tribuna, il pur breve tragitto diventa una sorta arena, dove il gladiatore sconfitto è costretto ai fischi degli spettatori, così come avveniva nell’Antica Roma dopo le lotte nel Colosseo.
Cappellacci ha testato già per due volte la scelta del cambio di sede per la consueta conferena stampa.
È necessario un cambio di passo, già a partire dalla gara di Teramo, dove ad attendere i lupi ci sarà il sempre insidioso San Nicolò.Occorrerà abbassare la testa e pensare solo a risalire la china, arrivare a dicembre con il minor gap possibile rispetto al Fano, che ha dimostrato di essere la squadra da battere, per poi nel mercato invernale rimediare a qualche errore di valutazione commesso durante la fase di allestimento.
Il campionato è lungo, c’è tutto il tempo per recuperare. Ma d’ora in poi serviranno maggiore attenzione e cattiveria. E servirà quel gioco spumeggiante, decantato dopo la gara contro la Recanatese, e mai più visto dalle parti di ‘Selva Piana’.