Cronache marziane / Quando il lunedì più traumatico diventa quello del rientro dalle ferie
CRISTINA SALVATORE
E purtroppo le vacanze sono giunte al termine. Temevamo questo momento dal primo giorno di ferie ma, chissà perché, all’inizio lo guardavamo con ottimismo, quasi con aria di sfida. E infatti, se non avessimo sottovalutato quello che tanti dottori della psiche chiamano “trauma da rientro” non avremmo rimandato tutta una vita di lavori, impegni, promesse e appuntamenti a settembre. Santi numi! Settembre è qui, dietro l’angolo! Ci aspetta impaziente con quell’alito freddino sul collo per ricordarci che tra poco tocca affrontare con coraggio questioni e scelte letteralmente in grado di cambiarci la vita. E noi? Che facciamo? Questo: al posto di cacciare dalla nostra testa la scimmia che da quindici giorni batte i piatti senza riposo, abbiamo fatto più spazio per ospitare Alvaro Soler e tutte le strofe di “Sofia”, canzone vincitrice del premio della critica “Testo impegnato”, che c’ha pedinato e molestato per tutta l’estate 2016 e ancora non molla la presa.
Il sogno è finito, dobbiamo trovare il coraggio di chiudere la valigia e affrontare il ritorno. Che stiamo subito partendo male, si capisce dalla coda in autostrada: un traffico senza precedenti in una sola direzione di marcia…la nostra. Tutti con quelle facce tipiche di chi è consapevole di essere piombato in un incubo, quello del ritorno, e non sa come uscirne. Per il semplice fatto che non si può uscirne senza viverlo fino alla fine. E pensare che, il giorno prima, file del genere per trovare un buco di parcheggio al mare, venivano fronteggiate con calma serafica e sorriso raggiante. Ore in auto (sotto un sole cocente a fare il girotondo infinito) che passavano invece leggere, scivolando via dalle nostre spalle sudate esattamente come fa la polvere con un soffio. Tutto è bello in vacanza, persino le ustioni e le cadute dagli scogli. Diciamo di noi stessi, tra una risata e l’altra “che sciocchino”. E basta, finisce tutto così.
Il primo pensiero una volta giunti a casa, va senza dubbio alla casella di posta elettronica. L’applicazione che con le notifiche ci avvertiva di tutte le mail in arrivo, l’avevamo prontamente disinstallata alla vigilia della partenza. Ora non abbiamo il coraggio di aprire il portatile. Chiediamo a qualche parente stretto, a qualche amico di fiducia, di farlo per noi, cercando di “leggere” dalla sua espressione facciale a che altezza si trova il livello della melma da cui dovremo risalire.
Davanti al letto ci sono ancora le scarpe da ginnastica che abbiamo lasciato a casa: ingombro inutile da portare dietro perché l’infradito diventerà l’unico modo di concepire una calzatura al mare. Tra l’altro, ormai non sappiamo neanche più come si allacciano queste “cose”, questi calzari pesanti, chiusi e oppressivi.
Passando in cucina, ci ricordiamo che il frigo è vuoto. Avevamo consumato tutto in previsione dei dieci giorni lontano da casa e per la cena non c’è nulla, neanche metà cipolla avvolta nel cellophane. Usciamo per comprare qualcosa, proprio l’essenziale, ma tutti i santissimi alimentari mostrano lo stesso cartello bene in vista “chiuso per ferie dal 10 al 30 di agosto”. Non è possibile. Come si fa a guardare avanti, a prendere il lato positivo del rientro quando fino al giorno prima il pensiero più gravoso era “che ristorante si va a saccheggiare oggi?”. E così, presi da un’incontenibile nostalgia aggressiva, neanche ci siamo resi conto di aver cominciato a disegnare cuori e scritte romantiche sulla sabbietta dei gatti. Così, per il retaggio di un’abitudine acquisita in vacanza.
E poi, all’improvviso, mentre ci perdiamo nel ricordo di bellissimi tramonti in riva al mare, accompagnati da birra fresca e sigaretta elettronica, veniamo riportati alla realtà dalla chiamata di una nostra cara amica. Un’amica che per lavoro disegna fiorellini sulle unghie e che vuole manifestarci tutta la sua solidarietà post-rientro con un “ti capisco molto bene, non sei l’unica a soffrire, sai?”. Piuttosto che lamentarci, come ci fa notare, dovremmo pensare a lei che domani avrà ben dieci dita, tutte insieme, da decorare con pennelli e strass: uno “strassio”, per l’appunto.
La verità è che tutti ci capiscono ma nessuno si mostra comprensivo quando li mandiamo a quel paese per un “ciao” di troppo. E puntualmente si presenta al nostro cospetto il collega che detestiamo (che da quando ne abbiamo memoria non ha mai perso un’occasione buona per farsi odiare) con quel suo irritante “è finita la pacchia eh? Hai messo almeno due chili in più, vero?”. Ecco. In quel preciso momento capiamo che le ferie ci mancano ancora di più, che in fondo, oltre che dalla routine, dal traffico, dalla sveglia delle sei del mattino, dalle scadenze, dalle responsabilità … stavamo scappando principalmente da dispiaceri grossi come lui.