Sarah Jane Morris e Antonio Forcione incantano il pubblico di Ripalimosani: l’artista di Southampton in Molise con il chitarrista originario di Montecilfone
FEDERICA VENEZIA
Sono da poco passate le sei del pomeriggio quando scorgo in lontananza la folta chioma rossa di Sarah Jane Morris. La vedo avanzare tranquilla e sorridente, fasciata in un abito semplice e dai colori accesi, segno distintivo di una forte personalità; accanto a lei Antonio Forcione, virtuoso della chitarra di fama mondiale.
Ci accomodiamo sui gradini del bel teatro comunale, in una Ripalimosani silenziosa e assolata.
Questa è un’ottima location per una prima visita in Molise o forse sei già stata nei dintorni?
SJM: Sì, è un piccolo anfiteatro, mi piace. Non credo di essere mai stata nella vostra regione ma potrei sbagliarmi, del resto ho suonato in centinaia di posti qui in Italia.
Ho letto che hai studiato il teatro di Brecht prima di diventare una cantante. Raccontami un po’ di te.
SJM: Avevo diciassette anni quando mio padre venne arrestato. Fu una cosa sconvolgente. Lasciai la scuola. Decisi di frequentare il college perché l’insegnante di teatro mi disse che il suo corso mi sarebbe stato d’aiuto. In Brecht è di fondamentale importanza il tema dell’alienazione, ed era proprio quello il mio stato d’animo. A Londra capitai in una scuola di recitazione frequentata, tra gli altri, da Kristin Scott-Thomas e Rupert Everett. Lì conobbi un pianista con il quale iniziai a esibirmi in piccoli locali: ero alla ricerca di un modo per ottenere la tessera del sindacato degli attori e fu così che imparai a cantare. Non ho mai preso una lezione di musica, ma a cinquantotto anni sono ancora in piena attività!
Antonio, tu sei molisano ma vivi a Londra da molti anni.
AF: Sono nato a Montecilfone e ho vissuto in Molise fino all’età di tredici anni, poi mi sono trasferito ad Ancona per studiare arte, e nel frattempo prendevo lezioni di chitarra. A Roma invece ho approfondito gli studi jazz. In seguito approdai in terra d’Albione. È un piacere rivedere questi campi, queste belle colline uniche nel loro genere.
Nel 1992 hai inciso Never Gonna Give You Up, un classico di Barry White. La tua versione ha avuto un grande successo in Spagna, Grecia, Giappone e Italia. Sei molto amata nel nostro Paese! Con quali artisti ti piacerebbe collaborare?
SJM: Sicuramente vorrei lavorare con Ennio Morricone. Ho scritto delle canzoni con Pino Daniele, è stata un’esperienza meravigliosa. A livello internazionale, sia io che Antonio siamo d’accordo nel citare un nome su tutti: Stevie Wonder.
A proposito di Pino Daniele, volevo appunto chiederti se inciderai mai quelle canzoni.
SJM: Ho chiesto al figlio di Pino se c’è una qualche possibilità di rivederle, sono al sicuro in uno studio di registrazione. È passato tanto tempo. Forse un giorno lo farò.
Un’altra hit è stata Don’t Leave Me This Way (canzone reinterpretata dai Communards nel 1986 in cui figura la partecipazione di Sarah Jane, ndr).
SJM: Sì, ebbe successo in tutto il mondo, fu un momento straordinario. Era una canzone attuale, un grande pezzo da discoteca, la gente la balla tuttora. Ne sono orgogliosa, ricordo bene il periodo in cui uscì: combattevamo per i diritti dei gay, eppure da allora niente è cambiato. In un clima così difficile fu una sorta di liberazione. Vedo ancora Jimmy (Somerville, leader della band, ndr), un anno fa abbiamo suonato insieme. Sono consapevole del fatto che questo brano mi abbia aiutato ad andare avanti con maggiore facilità.
Hai avuto qualche problema con Me and Mrs Jones, una cover contenuta nel tuo album omonimo del 1989: fu bannata dalla BBC come una possibile canzone lesbo. Non ne cambiasti il testo in “io e il signor Jones”…
SJM: Dal momento che avevo avuto successo con i Communards, un gruppo gay, i media pensarono che volessi dichiararmi lesbica. Nel giro di quattro anni k.d. lang avrebbe fatto coming out e tutti ne sarebbero stati contenti. Potevi essere gay ma non lesbica, e siccome io neppure lo ero non ottenni alcun tipo di sostegno da parte della stampa gay.
Compared to What è il risultato della vostra amicizia. Come vi siete incontrati?
SJM: Ci siamo conosciuti a Londra presso uno studio di registrazione. Siamo usciti per un drink: lui, italiano, ha preso un tè; io ho optato per un caffè! Stavo lavorando al disco Bloody Rain, mentre Antonio aveva appena registrato Sketches of Africa in Zimbabwe. Entrambi gli album sono stati influenzati dalla musica africana.
Tra i temi dell’album troviamo la tragedia dei migranti nel Mar Mediterraneo (The Sea) e la violenza sulle donne (Comfort Zone). Meritano un plauso a parte le cover, che spaziano da Stevie Wonder ai Police, passando per la celeberrima Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, qui riproposta in una versione di straordinaria bellezza, rarefatta e sottile.
SJM: In realtà mancano due brani: abbiamo deciso di escluderli perché ritenuti un po’ troppo ‘forti’. Uno di questi racconta di una prostituta a Nairobi, dove le possibilità di sopravvivenza sono minime se non accetti di svolgere quel tipo di mestiere.
Bloody Rain, il tuo album precedente, ha un sound globale. L’Africa è il tema dominante. Cosa mi puoi dire di Compared to What?
SJM: A livello musicale è un disco piuttosto variegato. È acustico, c’è un po’ di Africa e di blues, è soul ma anche folk e tanto altro ancora. È un lavoro di world music che tratta tematiche molto ampie.
Antonio, tu hai arrangiato l’album.
AF: Esatto. Sarah si è invece occupata della melodia e delle parole. Ricordo quando è venuta a casa mia e ha scaraventato sul pavimento una mole incredibile di poesie, appunti e aneddoti vari. Ho dovuto calarmi in tutto questo materiale, e devo dire che è stata una bella sfida.
A Compared to What manca il punto interrogativo. Qual è il motivo?
SJM: Perché non stiamo chiedendo di essere paragonati a qualcun altro.
AF: Con questo vogliamo dire che siamo tutti diversi. Noi siamo noi.
Come nasce una canzone?
SJM: Non sono una musicista, mi piace scrivere in compagnia di altri autori. Suono malamente il piano. Per me non c’è una regola di base; qualche volta nascono prima le parole, altre la melodia.
Che cosa ti sentiresti di consigliare a chi inizia questo tipo di carriera?
SJM: Di prendere spunto dalla vita; di scrivere cose che si conoscono; di guardarsi intorno per raccogliere nuove storie e vedere se queste ultime possono integrarsi con le proprie. Non è necessario essere grandi cantanti o musicisti, devi semplicemente essere onesto e il pubblico si comporterà di conseguenza.
AF: La penso allo stesso modo. Organizzo svariati workshop in tutto il mondo e solitamente suggerisco di parlare della propria storia. Una canzone viene da dentro e bisogna capire in che modo può essere portata in superficie. A volte tutto questo ha a che fare con la vita: più è colorata, maggiori sono le occasioni di ottenere risultati interessanti. Se resti a casa è difficile che accada qualcosa: devi uscire e calpestare l’erba non calpestata.
Il mondo sta diventando sempre più complicato. Viviamo in un’epoca dominata dall’eccesso di informazioni. Spesso ci sentiamo smarriti o come se nelle nostre vite mancasse qualcosa.
SJM: Credo nella collettività. Bisognerebbe sentirsi parte di qualcosa, prendersi cura degli altri, io vivo in questo modo. Dovremmo sostenere i piccoli commercianti, non le grandi catene commerciali internazionali. Nel Sud Italia queste realtà esistono ancora, la gente può acquistare verdura fresca in negozi a misura d’uomo, invece altrove la situazione è ben diversa; nel Regno Unito tutti frequentano queste immense catene di supermercati dove puoi ottenere qualsiasi tipo di cibo in qualunque periodo dell’anno. Abbiamo perso il senso delle stagioni, come pure il rito della condivisione del cibo. Si mangia fissando lo schermo della televisione e non più sedendosi a tavola con i propri familiari per vedere se hanno qualcosa da dire. Non sappiamo più comunicare, i cellulari e i messaggi sono diventati un’ossessione.
AF: Penso che se insegnassimo ai bambini il valore dell’empatia vivremmo in un mondo completamente differente, e invece li educhiamo alla competizione, è sempre l’Io a prevalere e tutto questo non va bene.
Le fotografie di Laura Venezia