“Dislessia, Disortografia e Discalculia possono essere definite caratteristiche dell’individuo fondate su una base neurobiologica; il termine caratteristica dovrebbe essere utilizzato dal clinico e dall’insegnante in ognuna delle possibili azioni (descrizione del funzionamento nelle diverse aree e organizzazione del piano di Aiuti) che favoriscono lo sviluppo delle potenzialità individuali e, con esso, la Qualità della Vita. L’uso del termine caratteristica può favorire nell’individuo, nella sua famiglia e nella Comunità una rappresentazione non stigmatizzante del funzionamento delle persone con difficoltà di apprendimento; il termine caratteristica indirizza, inoltre, verso un approccio pedagogico che valorizza le differenze individuali”. Documento PARCC (2011)
Un tempo anch’io andavo a scuola ed essendo DSA avevo le mie belle difficoltà. La mia diagnosi in età tardiva mi ha tolto un macigno dalle spalle ma non sempre è così.
Che percezione si può avere di Sé dopo una diagnosi di DSA? E che idea ci si può fare rispetto alla rappresentazione ha la società sui DSA? Che responsabilità noi tecnici abbiamo nel vissuto della famiglia e del bambino? E nel cambiamento culturale? Le nostre diagnosi sono piene di numeri, percentili, deviazioni standard, dati sui Quozienti Intellettivi, codici. Oltre a dare un profilo funzionale, cosa dice al bambino? Che cosa dice alla famiglia? Che cosa comunica al mondo?
In una ricerca condotta da Griffin & Pollak nel 2009 (Dyslexia 15: 23-41) è stato condotto uno studio qualitativo basato sulle esperienze di 27 studenti con DSA. I partecipanti hanno avuto una delle due seguenti concezioni sulla loro identità “neurodifferente”: Una concezione in cui la neurodiversità viene vista come una differenza che comprende un insieme di forze e debolezze (caratteristica). Una concezione “deficitaria” in cui la neurodivesità è vista come una condizione medica svantaggiosa (disturbo). E’ stato riscontrato che la prima concezione è associata ad una maggiore ambizione lavorativa nei soggetti, una maggiore autostima ed una maggiore capacità di proiettarsi nel futuro.
Noi, con il documento diagnostico possiamo contribuire allo sviluppo di un’identità positiva e a quel cambiamento culturale in cui i nostri bambini crescono. Il tecnico può parlare di un “disturbo” oppure di neuro-varità e di caratteristica, può specificare che ognuno di noi è diverso dall’altro, che ognuno di noi ha punti di forza e di debolezza. È questo cambiamento culturale la cornice etica in cui noi tutti dobbiamo inserire il nostro lavoro. Spesso assistiamo a numerosi convegni e formazioni per genitori e insegnanti ma poi, dopo qualche giorno, ci accorgiamo che nulla è cambiato soprattutto nella mentalità delle persone rispetto alla diversità. Il concetto di caratteristica porta dentro di sé la speranza che tutti gli individui possono essere riconosciuti per i loro talenti e vedersi abili e capaci, dove i doni sono amplificati e le debolezze ridotte. Il nostro contributo deve avere due finalità: Rendere il sistema consapevole delle parole e dei concetti utilizzati e consentire ai ragazzi di costruire un’idea di sé ragionevolmente accettabile.
Quindi un ragazzo con DSA vive una condizione esistenziale che richiede un aiuto, per la realizzazione dei suoi diritti umani secondo quanto stabilito dalla convenzione dell’ONU che afferma che lo sviluppo neurologico atipico è una normale differenza individuale che deve essere riconosciuta e rispettata come ogni altra variazione umana. Ognuno di noi parla, cammina, si relaziona, ama e impara in modo diverso. La caratteristica dei dislessici è una difficoltà marcata nei compiti di lettura e a volte di scrittura e di calcolo, tuttavia l’obiettivo degli aiuti non può e non deve limitarsi a favorire lo sviluppo di queste abilità ma favorire lo sviluppo dell’essere, del divenire e dell’appartenere. Le dislessie non sono cose ma persone e dovunque vi siano persone esiste multifattorialità, complessità, diversità.
Concludo con una frase del prof. Ciro Ruggerini al quale mi sono ispirata per questa nota: “Dammi una mano a svilupparmi ma non pretendere di trasformarmi in qualcos’altro”.
Dott.ssa Valeria Strada