Molte persone risultano carenti di Vitamina D e, pur assumendone alte dosi, non riescono a correggere questo problema. Uno studio pubblicato pochi giorni fa, spiegherebbe il motivo di questa condizione: alcuni individui hanno una resistenza alla vitamina D. Ce ne parla il Dottor Carlberg, professore di biochimica che, con i suoi colleghi dell’università della Finlandia orientale, ha individuato e analizzato alcuni biomarcatori utili per comprendere questo meccanismo. Il professore avrebbe dimostrato che l’assunzione vitamina D3 non è sempre in grado di esercitare gli effetti previsti, neanche aumentando la dose, perché vi è una variabilità da persona a persona.
Il 24% delle persone studiate non metabolizza bene la Vitamina D
I ricercatori hanno raggruppato i pazienti in base alla loro capacità di utilizzare la vitamina D3. Il 24% dei pazienti è risultato avere una bassa risposta all’integratore, il 51% una risposta media, ed il 25% una buona risposta. Questi dati hanno dato conferma che esiste uno spettro di diversa reattività alla vitamina D, con circa il 25% di popolazione che non risponde adeguatamente alle dosi convenzionali.
La resistenza ereditaria alla vitamina D
L‘idea della resistenza alla vitamina D è stata proposta per la prima volta nel 1937 da Albright, Butler e Bloomberg, sulla base dell’osservazione che, in rari casi di rachitismo nei bambini, erano necessarie dosi molto elevate di vitamina D. Gli individui resistenti alla vitamina D richiederebbero quindi dosi molto elevate della stessa, per ottenere una risposta fisiologica adeguata. Tuttavia la resistenza ereditaria alla vitamina D è molto rara.
La resistenza acquisita alla vitamina D
Terapia della resistenza alla vitamina D
Attualmente non esistono terapie affidabili per correggere la resistenza alla vitamina D. L’unica strategia conosciuta è il protocollo Coimbra, che prevede la somministrazione di vitamina D ad alte dosi. L’efficacia del protocollo Coimbra non ha basi obiettive, tuttavia alcuni pazienti riferiscono un miglioramento dei sintomi. Questo approccio necessita inoltre di precauzioni comportamentali e non è esente da controindicazioni ed effetti collaterali, come ad esempio l‘ipercalcemia, una condizione in cui il livello di calcio nel sangue è superiore alla norma. Troppo calcio nel sangue può indebolire le ossa, creare calcoli renali, interferire con il funzionamento del cuore e del cervello e dare disturbi di varia natura. Si tratta quindi di una possibilità da non prendere alla leggera anche perché, purtroppo, non risolve il problema alla base. E’ auspicabile che, grazie all’innovazione tecnologica, si possa un giorno arrivare a disinnescare i meccanismi che provocano la resistenza alla vitamina D. Tuttavia è sempre possibile intervenire sui fattori di rischio modificabili, contrastando lo stress cronico e facendo lunghe passeggiate all’aria aperta.
Carola Pulvirenti
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