“Non credo che le misure protezioniste portino vantaggi alle imprese italiane, tanto meno a quelle molisane”. Così la pensa Enrico Colavita, l’imprenditore molisano leader mondiale nell’export e nella distribuzione di prodotti alimentari.
“Il mercato europeo, che è uno dei più importanti al mondo, per continuare ad essere protagonista deve restare aperto. Negli ultimi anni, – prosegue Colavita – la ripresa italiana è stata rilanciata proprio dalle esportazioni, e restrizioni nel commercio mondiale non potranno che avere effetti negativi”.
Quali ripercussioni potrebbero esserci per le imprese molisane esportatrici? “Nel Molise la maggior parte delle esportazioni viene da imprese medio grandi, nelle quali il fatturato proveniente dall’export rappresenta una grossa fetta. Restrizioni al commercio in Paesi come il Canada e gli Stati Uniti potrebbero avere conseguenze devastanti sulla tenuta aziendale”.
È preoccupato per le restrizioni ai prodotti alimentari che potrebbero derivare dalle segnalazioni dell’ONU, che sostiene che alcuni di questi fanno male alla salute? “Sono iniziative pericolose per molti prodotti italiani, ma la nostra battaglia dovrebbe essere un’altra: più che difendere semplicemente il marchio dell’italianità, dovremmo preoccuparci di difendere la qualità. Gli alimenti contraffatti o quelli che ingannano i consumatori promettendo benefici che non hanno, sono molto più dannosi del parmigiano e dell’olio d’oliva. Basterebbe un’informazione corretta e la lotta alle contraffazioni per tutelare le nostre esportazioni”.
Perchè le imprese molisane sono così poco presenti sui mercati esteri? “I problemi sono tanti. Tanto per cominciare la dimensione non aiuta: nel settore alimentare, che è quello che conosco, si può anche essere una piccola impresa ma si deve avere una grande propensione alla crescita, che significa avere risorse da investire in competenze, strutture e organizzazione a servizio di un percorso di internazionalizzazione. Poi bisogna superare il campanilismo: dobbiamo smetterla di credere che basti scrivere sulle confezioni dei nostri prodotti Made in Italy, o peggio Made in Molise, e pensare che questo basti per conquistare un mercato”.
Come si superano queste criticità? “Per entrare in un mercato oggi è indispensabile possedere attestazioni di ogni tipo che certificano il rispetto di alcuni standard. Ogni Paese ne richiede diversi. Occorre, quindi, prima di tutto acquisire queste certificazioni da organi terzi riconosciuti, che attestano tra l’altro l’elevata qualità dei prodotti e delle materie prime, solo dopo si può bussare alla porta dei distributori per essere aiutati ad entrare nei mercati di interesse. Se si riesce ad entrare nel circuito, poi bisogna avere capacità produttiva elevata: con i piccoli quantitativi non si va da nessuna parte”.
Quanto funzionano le missioni all’estero guidate dalle istituzioni? “Le missioni organizzate dall’ICE guidate dal capo dello Stato sono importantissime non solo per i nostri principali contractors, ma soprattutto per l’immagine dell’Italia che portano nel mondo. Per dirla con Marchionne, che espresse questo pensiero qualche anno fa, quando un esponente delle nostre istituzioni si presenta in un consesso estero, rappresenta l’Italia, e svolge bene il proprio ruolo quando guadagna stima e considerazione di cui poi beneficia tutto il sistema Paese, aziende comprese.
Se parliamo, invece, delle missioni all’estero guidate dalle regioni sono molto più scettico. I vantaggi che possono derivare alle imprese sono veramente minimi. L’Italia è un Paese territorialmente piccolo e con una quota molto bassa sulla popolazione mondiale. Pensiamo, in proporzione, quanto può incidere in un Paese estero la missione di una piccola regione italiana. Molto importanti possono essere, invece, le reti d’impresa, che costringono le imprese a collaborare ed unire le forze per spingersi sui mercati internazionali. Lo scoglio da superare è sempre quello culturale, che propende per l’individualismo”.
Insomma Lei è contro ogni iniziativa “sovranista”? “Trovo questo atteggiamento semplicemente anacronistico, ma soprattutto poco produttivo di risultati positivi per la collettività”.