Lo studio, pubblicato sulla rivista Oncotarget, è stato effettuato in laboratorio su colture di cellule di glioblastoma, la forma di tumore cerebrale più diffusa. Ricerche condotte in precedenza hanno già dimostrato la capacità del farmaco di inibire la crescita delle cellule cancerose, ma queste ultime riescono a sviluppare rapidamente una resistenza alla molecola, che diventa quindi inefficace. Chiarire a fondo i suoi meccanismi di azione, quindi, è un passo importante verso una nuova prospettiva terapeutica.
“Con il nostro studio – dice il professor Francesco Fornai, Professore Ordinario di Anatomia dell’Università di Pisa e Responsabile dell’Unità di Neurobiologia e dei Disturbi del Movimento del Neuromed – abbiamo visto come la somministrazione di rapamicina, già a dosi molto basse, provochi una modifica delle cellule maligne. In termini molto semplificati, le cellule tumorali cominciano a sviluppare una morfologia simile a quella dei neuroni normali, con un corpo piramidale e lunghe ramificazioni. L’espressione di proteine considerate marcatori tumorali viene inoltre ridotta drasticamente e così avviene per la migrazione cellulare, che rappresenta un indice di invasività”.
La rapamicina agisce su uno specifico complesso molecolare, mTOR, profondamente implicato nella regolazione della crescita e della proliferazione cellulare. Una molecola con una sua storia tutta particolare: è prodotta da alcuni batteri scoperti nel 1969 in campioni di terreno raccolti nell’Isola di Pasqua (Rapa Nui, in lingua polinesiana, da qui il nome rapamicina). “In questo studio – spiega Fornai – abbiamo dimostrato come, agendo su mTOR, la rapamicina condizioni l’espressione di specifici geni legati al differenziamento cellulare, in modo opposto rispetto a quanto si verifica nelle cellule tumorali. Il prossimo obiettivo sarà ora di passare dal laboratorio alla sperimentazione su modelli animali. Pensiamo che la rapamicina possa promuovere l’integrazione delle cellule cancerose nel normale tessuto nervoso cerebrale”. Ma all’orizzonte c’è anche una prospettiva completamente diversa: la capacità del farmaco di indurre la differenziazione dei neuroni potrebbe rappresentare una nuova strada terapeutica per affrontare le malattie neurodegenerative.