GIULIANA IANNETTA
L’uso del noto social network Facebook è ormai abitudine quotidiana e diffusa sia tra gli adolescenti che tra i meno giovani. Praticamente tutti, infatti, non riescono più a fare a meno di uno strumento che consente di scambiarsi idee ed opinioni, promuovere eventi ed attività, conoscere ciò che accade nel mondo o semplicemente tenersi in contatto con amici e parenti lontani.
Spesso, tuttavia, i naviganti non si rendono conto della reale importanza del flusso di informazioni generato e scambiato attraverso la rete e delle conseguenze che lo stesso comporti.
Fermo restando che l’utente resti il solo proprietario dei contenuti che pubblica e possa gestirli attraverso le impostazioni del social, infatti, la scelta di un profilo pubblico comporta la possibilità di visualizzare i suoi dati da parte di chiunque, anche se non iscritto a Facebook.
I naviganti, che all’atto dell’iscrizione devono aver compiuto tredici anni di età e non essere stati condannati per crimini sessuali, inoltre, si obbligano a rispettare una serie di regole la cui violazione può determinare la configurazione di diversi illeciti civili e penali.
È vietato, ad esempio, pubblicare comunicazioni commerciali non autorizzate, contenuti minatori, pornografici, con incitazioni all’odio, alla violenza ed alle discriminazioni o con immagini di nudo. È altresì precluso fornire informazioni personali false, pubblicare documenti di identità o informazioni finanziarie riservate, denigrare, intimidire e infastidire altri utenti o cercare di accedere ai loro account. Bisogna prestare molta attenzione, inoltre, a pubblicare foto che non si è scattato direttamente o che ritraggano terzi che potrebbero essere contrari alla diffusione della propria immagine sul web.
LE CONSEGUENZE DELLA VIOLAZIONE DELLE REGOLE. Il rischio più frequente è quello di violare la privacy e i diritti di proprietà intellettuale di altri utenti e, quindi, essere chiamati in causa per risarcirne i danni.
Il pericolo maggiore, comunque, resta di commettere un vero e proprio reato. In particolare, si può finire davanti al giudice penale per i reati di diffamazione, offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone o di cose, di peculato, nel caso di dipendenti pubblici che perdono tempo sul social network durante l’orario di lavoro oppure, infine, l’illecito penali di sostituzione di persona.
La Corte di Cassazione, con una sentenza pubblicata lo scorso 22 gennaio 2019, ha sottolineato come usare Facebook spacciandosi per il titolare dell’account integri un vero e proprio reato, anche nel caso in cui si tratti del proprio partner e lo stesso abbia comunicato la password in precedenza.
IL CASO. Un uomo era entrato nel profilo Facebook della moglie, utilizzando nome utente e password a lui noti prima che la loro relazione si incrinasse. Lo stesso, poi, aveva fotografato la chat intrattenuta dalla moglie con un altro uomo e cambiato la password. A conclusione del giudizio di legittimità, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna dell’imputato per il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico. I giudici, in particolare, hanno evidenziato come il fatto che il ricorrente fosse a conoscenza delle chiavi di accesso della moglie al sistema informatico – quand’anche fosse stata quest’ultima a renderle note offrendo in passato un’implicita autorizzazione all’accesso – non esclude comunque il carattere abusivo degli accessi sub iudice. Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto certamente un risultato in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi.