CRISTINA SALVATORE
È arrivato Burian. Ebbene, la tanto annunciata e temuta ondata di freddo che ha colpito in particolar modo il Centro Sud è giunta puntale come la pubblicità di Imodium mentre sei a tavola. Ma di cosa si tratta? C’ho riflettuto a lungo, non mi sono bastate le notizie apprese dai mezzi di informazione, e così ho spremuto le meningi e iniziato a ragionarci su. Dall’anagramma di “Burian” è venuto fuori un inquietante “Urbani” e pure un sinistro “Burina”. Ho pensato subito ad una colpa da espiare per tutte le volte in cui non ho messo abbastanza monete nel parchimetro, sforando di qualche mezz’ora l’orario stabilito per lo sgombro dell’auto dal parcheggio. A quanto ho pregato affinché i vigili urbani avessero pietà del mio ottimismo che mi portava a credere di poter uscire dalle poste con due minuti di anticipo. Ho provato il terrore a lento rilascio, un concentrato di panico liofilizzato. Dietro Burian si nasconde un complotto allo stato puro, paragonabile alla paura di una multa che ti può piombare in casa come palate di ghiaccio e neve in faccia, alla velocità del tappo di uno Chardonnay, shakerato per sbaglio in borsa. Ma poi c’è anche quel “Burina” che non mi ha convinta affatto. Dietro questo mistero si nasconde, forse, la perfidia di una signora che ti spintona per prendere l’ultimo paio di scarpe in saldo mentre stavi chiedendo alla commessa la cortesia di poterle misurare? Inquietante anche tale aspetto.
E poi, ci vogliono far credere che Burian sia “quel gelido vento che durante la stagione invernale spira sopra le sterminate lande siberiane e le steppe kazake verso gli Urali e le pianure Sarmatiche”, ma io so bene che è quel vento gelido che durante la stagione invernale nasce dal Molise e investe buona parte della Russia e della Siberia. In quelle sterminate lande ci stanno ancora maledicendo perché gli abbiamo portato la più copiosa nevicata di sempre e le temperature di una crioconservazione post mortem.
Nel dubbio, prima che questa calamità si abbattesse sulle nostre case, ho pensato di giocare d’anticipo. Si, perché il senso di un avviso preventivo è quello di permettere alla popolazione di munirsi di santa pazienza e prepararsi ai disagi che arriveranno, utile soprattutto per chi, come me, aveva preso appuntamento dalla parrucchiera il giorno della Befana per distinguersi proprio dalla Befana ed evitare gli auguri ‘toda joia, toda beleza’ dei simpaticoni sui social. Meglio avere un riccio decomposto sulla testa che una frattura multipla di omero e tibia. Quindi, ho pensato di uscire prima della tempesta e comprare il necessario per la sopravvivenza. Chi mi ha visto sgusciare lesta dal super avrà pensato che al posto di Burian stesse per venirmi a trovare Brian, il cugino americano di trecento chili che mangia come un’ invasione di termiti rosse africane.
E ho fatto bene perché sono tre giorni che mi ritrovo chiusa in casa a scoprire angoli del bagno e della cucina che non avevo mai visto o considerato prima. Per esempio, non sapevo di avere un apparecchio che fa il pane, nascosto dietro la buonanima delle gallette di riso che risalgono a tempi adolescenziali in cui mi ero ufficialmente convinta che potessero sostituire un pasto. Giacciono abbandonate dal 1998 in una credenza, a causa di una mia credenza.
Ok, scoperta la macchina che impasta, ho iniziato a preparare il necessario per affrontare i momenti di emergenza. Certo, più volte ho pensato di recarmi in strada con l’auto per raggiungere una pizzeria, ma la sensazione che potessi creare problemi alla mia città, piegata da una calamità naturale con tanto di servizi sui Tg nazionali e di troupe Sky presente sul nostro territorio, mi ha fatto desistere. In fondo ci sono abituata: dove vivo io, più in alto del Castello Monforte, fa neve anche quando in centro escono con le infradito e mai, per questo, ho provato invidia, rabbia o rancore verso il mio prossimo. In montagna è così, da quando ne abbia memoria. In montagna, se sai che nevicherà, per azionare i mezzi a disposizione, tocca aspettare che la neve attacchi e tocca sperare che conceda tregue.
Non nascondo che in qualche momento, di sera, ho raggiunto picchi di noia – che Piero Angela avrebbe classificato come letargia – in cui trovavo interessanti anche le linee sul palmo della mia mano, però, pur di uscirne, mi sono ingegnata. Le possibilità erano diverse:
a)mi attacco al centralino per chiedere cortesemente come va la situazione e segnalare precauzionalmente un disagio, invocando soccorsi quando possibile.
b)frantumo le ovaie di tutta la popolazione molisana, lamentandomi di non riuscire ad aprire il portone e trollando qui e là, a caso, per creare traffico virtuale, molestie e disagio umano, facendo a gara a chi soffre di più con quelli in Alaska. Sfruttando il disagio per aizzare le masse e conquistare il mondo.
c)scendo in strada e spalo un po’ di neve che ancora sono giovane e in buone condizioni fisiche e ho pietà di quelli che lavorano ininterrottamente da giorni, combattendo contro un vento che non ti permette neanche di trovare gli alberi nel posto in cui erano cresciuti e una neve che ti fa il gesto dell’ombrello dieci secondi dopo che l’hai spalata.
Indecisa tra “a” e “c”, ho optato per la seconda ma con un dubbio atroce: e se qualcuno dei miei familiari si sente male? Che faccio? Alt. Respira. Ragiona. Intanto questi pensieri malefici devono sparire dalla mia testa come è sparita la mia auto sotto Burian, cioè il tempo di uno starnuto. Al momento le cose stanno andando bene, al massimo, se dovesse accadere, ho la possibilità di chiamare vigili del fuoco, polizia, amministratori, croce rossa, verde, blu e arcobaleno e pure le unità cinofile, che da sempre danno priorità a casi di emergenza a discapito di chi deve uscire per i saldi. Intanto ho liberato la via con l’ausilio di una pala e dei santissimi mutandoni di lana.
Ok, pensando a tutto ciò mi son fatta coraggio e ho deciso che non sarebbero stati questi 180 centimetri di neve (sì, sotto casa mia siamo arrivati a quasi due metri in alcuni punti) a procurarmi confusione mentale mista a panico e voglia di ammazzare il primo passante a caso. Da piccola io e la mia famiglia affrontavamo situazioni del genere con il sorriso: ricordo di nevicate abbondanti e di scuole chiuse per la gioia di tutti. Aspettavo la notizia al telegiornale per sapere quello che avrei potuto fare il giorno dopo, ossia mettermi una busta sotto le pacche e scivolare in strada con gli amici del quartiere, tanto non sarebbe passata neanche una macchina. Ricordo i miei genitori, in particolare mio padre, che lavorava a Termoli e che la neve, per lui, non era poi così utile. Ricordo di problemi importanti risolti con l’aiuto dei condomini, che si incontravano sotto i portici per spalare insieme. Pale e motozappa, guanti, scarponi e cappello. I disagi più grossi si trasformavano in chiamate di emergenza, e per emergenza si intendeva un meteorite in viaggio diretto sul quartiere, sennò si arrivava a capire che la neve, in fondo, cade sulle teste di tutti ma collaborando, insieme, fa un po’ meno paura.