Psicologia Live Archivi - CBlive https://www.cblive.it/category/rubriche/psicologia-live La città di Campobasso in diretta Fri, 26 Nov 2021 12:09:14 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 https://www.cblive.it/wp-content/uploads/2018/01/cropped-android-icon-144x144-32x32.png Psicologia Live Archivi - CBlive https://www.cblive.it/category/rubriche/psicologia-live 32 32 Cos’è la poker face in psicologia? https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/cose-la-poker-face-in-psicologia.html https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/cose-la-poker-face-in-psicologia.html#respond Mon, 29 Nov 2021 08:04:06 +0000 https://www.cblive.it/?p=110050 È anche una canzone di Lady Gaga, star della musica pop e premio Oscar recentemente ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”: poker face fa parte del vocabolario comune, lo dicono proprio tutti – anche chi a poker non sa nemmeno giocare. Terminologia nata proprio nel contesto del gioco d’azzardo, è oggi entrata …

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È anche una canzone di Lady Gaga, star della musica pop e premio Oscar recentemente ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”: poker face fa parte del vocabolario comune, lo dicono proprio tutti – anche chi a poker non sa nemmeno giocare. Terminologia nata proprio nel contesto del gioco d’azzardo, è oggi entrata completamente nel linguaggio comune. Ma che cos’è la poker face?

La poker face al tavolo verde

Essere un esperto giocatore di poker non significa solamente conoscere perfettamente il valore delle poker fiches nei tornei e nei cash game, le strategie e i trucchi di calcolo, ma vuole anche dire essere in grado di sedersi al tavolo e scrutare i propri avversari con la poker face più convincente possibile. Si tratta di un’espressione totalmente imperscrutabile e impassibile: non lascia trasparire alcuna emozione, è anzi un perfetto scudo, è uno sguardo freddo.

C’è chi sostiene che la poker face nasconda qualcosa, c’è chi la associa a una menzogna da celare: la verità è che nel poker si tratta semplicemente di un cipiglio neutro e imperturbabile. Il poker, del resto, è un gioco a informazione parziale: non si conoscono le carte degli avversari, mentre si sa cosa si ha in mano e cosa c’è sul tavolo. Se gli altri giocatori scoprissero le nostre carte, ci batterebbero; pertanto al tavolo verde è importante:

  • Avere capacità di lettura;
  • Avere capacità di dissimulazione.

E per scoprire le carte degli altri non occorre necessariamente sbirciare davvero cosa ci sia fra le mani degli avversari, ma può essere sufficiente studiare i loro comportamenti: guardare le pupille, controllare il cambio del respiro, contare quante volte riguardano le carte durante la partita. Osservare ogni piccolo segnale equivale a scoprire indizi e, forse, anche capire schemi non verbali. Il poker, insomma, diventa anche uno scontro di linguaggi del corpo: emettere un segnale falso significa rendere il gioco ancora più difficile.

E nella vita di tutti i giorni, invece, cos’è la poker face?

La poker face in psicologia

Abbiamo appena visto che al tavolo verde la poker face ha un’importanza cruciale, poiché non dà agli avversari la possibilità di capire quali carte abbiamo in mano. Ma quando la partita di poker finisce è ancora importante saper bluffare e ingannare chi ci sta di fronte?

Un’altra terminologia entrata nel linguaggio comune è fare buon viso a cattivo gioco: ecco un esempio dell’applicazione della poker face nella quotidianità. Facciamo un esempio concreto: quando ci prendiamo una forte cotta per qualcuno, quando dichiariamo loro il nostro amore e scopriamo di non essere ricambiati, possiamo reagire con una poker face, per non lasciar trasparire tutto l’immenso dolore che proviamo. Lo stesso può accadere quando abbiamo bisogno di celare la delusione dopo che il nostro capo ci ha comunicato che non riceveremo la promozione che ci era stata promessa. Incassiamo il colpo senza far notare a chi abbiamo di fronte quando ci siamo davvero rimasti male.

Negli esempi appena descritti, la poker face nasce dall’orgoglio: la disillusione ci dilania, eppure non vogliamo darlo a vedere. Si tratta di un comportamento tipicamente e unicamente umano: nemmeno i nostri migliori amici, i cani, riescono a dissimulare il dispiacere dopo un rimprovero. Il nostro corpo e la nostra mente attuano strategie perché la nostra espressione facciale risulti neutra e distaccata, e affinché le nostre gote non arrossiscano né vengano solcate da lacrime. A livello fisico, dunque, entra in gioco un potentissimo controllo espressivo, mentre a livello mentale un’incredibile capacità di sedare i pensieri negativi. E così la poker face diventa una maschera dietro la quale riusciamo a mantenere la calma anche nelle situazioni più spiacevoli e difficoltose – sia a livello personale e affettivo, che professionale. Sentimenti ed emozioni non vengono soppressi: a dominare è il contegno.

Sono stati dei giornalisti sportivi statunitensi i primi a fare uso del termine poker face fuori dal contesto del gioco d’azzardo, e oggi questo linguaggio è applicabile in ogni ambito in cui la freddezza fa da scudo allo stress. Ecco dunque come un modo di dire così legato al tavolo verde è diventato oggetto di studi della psicologia e come torna utile anche nelle relazioni e nella negoziazione.

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Disgrafia, un mondo da scoprire https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/disgrafia-un-mondo-da-scoprire.html https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/disgrafia-un-mondo-da-scoprire.html#respond Sat, 24 Apr 2021 10:00:28 +0000 https://www.cblive.it/?p=103595 Scrivere dentro le righe Alcuni bambini hanno difficoltà a scrivere dentro le righe o nei quadretti, altri scrivono lettere troppo grandi o troppo piccole, alcuni di loro non rispettano i margini del quaderno, ed altri ancora colorano in modo non omogeneo, sono spesso lenti nello scrivere e poco organizzati nell’organizzazione del lavoro. In questi casi …

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Scrivere dentro le righe

Alcuni bambini hanno difficoltà a scrivere dentro le righe o nei quadretti, altri scrivono lettere troppo grandi o troppo piccole, alcuni di loro non rispettano i margini del quaderno, ed altri ancora colorano in modo non omogeneo, sono spesso lenti nello scrivere e poco organizzati nell’organizzazione del lavoro. In questi casi si parla di disgrafia: un disturbo specifico dell’apprendimento che riguarda le competenze grafiche e motorie. Ma non solo, dietro la disgrafia si cela un mondo da scoprire, quello dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). I DSA si manifestano in età evolutiva e riguardano la scrittura, la lettura, i numeri e i calcoli.

Non è patologia ma neurodiversità

E’ bene precisare che i DSA non sono espressioni patologiche, ma forme di neurodiversità. Nei bambini con questi disturbi, in alcune specifiche aree dell’apprendimento, si mette in atto un funzionamento neurologico differente, sono presenti capacità cognitive integre adeguate all’età. La legge 170/2010 riconosce quattro disturbi dell’apprendimento: dislessia, disortografia, disgrafia, discalculia e tutela il diritto allo studio per chi ne presenta, prevedendo all’occorrenza misure didattiche di supporto. Si stima che un 4-5% di alunni presentano uno o più disturbi specifici dell’apprendimento.

La disgrafia

La disgrafia è il disturbo legato alla scrittura di parole e di numeri e si manifesta anche nel disegno. La difficoltà si mostra di solito nel tratto e nell’uso dello spazio e della direzione. Il bambino disgrafico ha difficoltà a copiare, ad impugnare una penna o una matita; il suo tratto varia, il movimento della sua scrittura non è fluido; i caratteri non tengono conto delle righe o dei quadretti; le lettere diventano o troppo grandi o troppo piccole e non vengono rispettate le regole di grandezza e differenza delle lettere, né i margini, né l’allineamento delle parole, procedendo lo scritto in salita o in discesa. Il testo risulta, quindi, disordinato e spesso illeggibile. Non solo. Il bambino presenta anche difficoltà nella scrittura dei numeri e soprattutto difficoltà nell’incolonnamento. Il disegno è spesso essenziale e potrebbe presentarsi inadeguato rispetto all’età: il colore, per esempio, si presenta con tratti forti e continue inversioni.

Come intervenire

Molte sono le terapie e i processi riabilitativi. Per certo, è fondamentale lavorare su specifici esercizi che permettano di acquisire un adeguato coordinamento della mano per una corretta motricità, di lavorare sull’organizzazione dello spazio, sull’equilibrio e sul coordinamento. Non solo. Altrettanto importante è lavorare contemporaneamente su esercizi di lettura e ortografia. Si possono usare, a questo scopo, degli strumenti compensativi: quaderni con bande colorate per l’organizzazione e la direzione dello scritto, oppure programmi appositi al computer. Tutti gli interventi devono essere mirati, perché, come anticipato, dietro la diagnosi di DSA c’è una specifica espressione della problematica. Non tutti i DSA, infatti, presentano le stesse caratteristiche, anche in virtù del fatto che dietro ogni bambino c’è una storia, un vissuto.

Autostima e motivazione

Molti alunni con DSA si confrontano con l’insuccesso, spesso sono demotivati e, davanti alla difficoltà o alla frustrazione che si determina in ambito scolastico, vivono un senso di impotenza e di conseguenza rispondono con un rifiuto. È importante lavorare sugli aspetti personali ed emotivi della persona disgrafica, sulla sua autonomia, sull’ autostima e sulla motivazione. L’intervento sulla persona è un intervento anche sulla famiglia. Il lavoro deve essere integrato ed è quindi è imprescindibile la collaborazione con la scuola, affinché il processo riabilitativo sia condiviso e partecipato.

 

Alessia De Camillis

Psicologa Psicoterapeuta

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Quando a parlare è il silenzio https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/quando-a-parlare-e-il-silenzio.html https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/quando-a-parlare-e-il-silenzio.html#respond Thu, 18 Mar 2021 11:56:35 +0000 https://www.cblive.it/?p=102536 Una difesa naturale «Immagina di essere un piccolo mammifero, per esempio un cane delle praterie, esci dalla tana e vai in cerca del pranzo: cominci ad esplorare i dintorni e all’improvviso vedi una lince rossa, tua ben nota nemica. Ti immobilizzi del tutto, senza dover soppesare la tua decisione, utilizzi il regalo che ti ha …

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Una difesa naturale

«Immagina di essere un piccolo mammifero, per esempio un cane delle praterie, esci dalla tana e vai in cerca del pranzo: cominci ad esplorare i dintorni e all’improvviso vedi una lince rossa, tua ben nota nemica. Ti immobilizzi del tutto, senza dover soppesare la tua decisione, utilizzi il regalo che ti ha fatto l’evoluzione. Capita e basta. La percezione visiva o uditiva della lince rossa arriva direttamente alla tua amigdala e la reazione conseguente è l’immobilità», in queste poche righe, il neuroscienziato statunitense Joseph LeDoux descrive chiaramente il valore adattivo di un’emozione come la paura, essa, infatti, si attiva come risposta arcaica innescata dall’amigdala, un nucleo del cervello che attiva la difesa dell’individuo in caso di pericolo. Oltre alla paura, anche la felicità, la rabbia, il disgusto, la tristezza e la sorpresa, sono emozioni primarie, presenti già nei primi mesi di vita. Nel caso della paura, lo scopo principale è quello di allertare l’organismo affinché possa prepararsi alla difesa, all’attacco o alla fuga (Milosevic, 2015.)

 Come un congelamento

Il Sistema Nervoso adatta la propria reazione alle esigenze del momento. Lo stato di freezing si ha quando l’organismo s’immobilizza per restare il più possibile nascosto a un potenziale nemico/predatore. Uno stato emotivo e comportamentale che prevede diversi gradi d’inibizione dei movimenti, dei comportamenti e della vocalizzazione. C’è anche da dire che nel momento in cui sarà interrotto il freezing, il “motore” per la lotta o la fuga, sarà già al massimo dei giri pronto ad attaccare in caso di bisogno.

Balbuzie e mutismo selettivo

Una possibile relazione tra questo tipo di risposta e alcuni disturbi del linguaggio, è stata già indicata in letteratura sia per la balbuzie, sia per il Mutismo Selettivo. Questo stato di immobilizzazione descrive al meglio i soggetti con i segni più gravi del Mutismo selettivo quando, accanto all’assenza di comunicazione verbale, si osservano anche l’immobilità, la mancanza di espressione e la rigidità, in uno stato di “congelamento” di tutto il corpo. Adattando il modello di Clark e Wells (1995) riferito alla fobia sociale, si può ipotizzare che questa reazione di freezing prevalga rispetto a quella di fuga poiché, presentandosi nell’infanzia, il bambino ha meno possibilità di sottrarsi fisicamente ad una situazione temuta, soprattutto se si sente poco capace di affrontare l’ambiente. Metterà in atto quindi una risposta comportamentale inibitoria molto forte che gli permetterà di tenere sotto controllo la componente ansiosa, riducendo momentaneamente il disagio dovuto all’ansia nei momenti di confronto sociale.

Sentirsi diversi, inadeguati

In questo modo, il bambino si sottrarrà volontariamente dall’interazione sociale portando anche i coetanei a mettere in atto comportamenti di evitamento; ciò produce nell’immediato una sensazione di sollievo, come se fosse protetto dal suo mutismo, ma, allo stesso tempo, questa protezione confermerà le sue credenze di diversità e inadeguatezza sociale, aumentando la probabilità di sperimentare emozioni spiacevoli come tristezza, ansia e rabbia che ostacoleranno lo sviluppo di abilità sociali importanti e contribuiranno all’alimentazione di questo “circolo vizioso”. Questo stato di freezing è meno riconoscibile però quando accanto al mutismo, si osservano comportamenti che lasciano intravedere un minimo di iniziativa come l’indicare, scrivere messaggi con biglietti, picchiettare sulla spalla di qualcuno per richiamarne l’attenzione, fare brevi gorgheggi o suoni, se non addirittura la partecipazione a giochi e attività di gruppo, dando segni di benessere e divertimento, continuando tuttavia a mantenere il silenzio. Diventa ancora meno riconoscibile quando il bambino mostra una forte volontà comunicativa articolando comunque parole riconoscibili, sebbene senza suono.

Intervento psicologico e psicoterapeutico

Secondo l’approccio della Psicoterapia psicodinamica Integrata, si deve tener conto dell’atteggiamento empatico del terapeuta, volto a creare il clima adatto affinché si instauri una relazione di sicurezza che permetta al paziente (in questo caso in età evolutiva) di aprirsi ad espressioni anche non verbali, ma di gioco e di rappresentazione, senza la pressione che può essere derivata dagli altri contesti di vita del bambino. Attraverso l’interazione terapeutica, si creeranno dei significati che produrranno il linguaggio come azione corporea, ossia vocalizzo, suono, segno, cioè manifestazione protomentale di emozioni e affetti (intesa come l’insieme dei primi processi psichici che si sviluppano nel cervello umano). L’intenzionalità del gesto diventa intenzionalità del senso, in seguito anche verbale (ma non solo), al fine di raggiungere di esercitare il pensiero anche attraverso la parola (Lago, 2016). Successivamente attraverso le rappresentazioni si può giungere ad un livello di riflessione (adattato all’età) che giunge al superamento del blocco verbale.

Per far questo è necessario coinvolgere il sistema familiare, ove opportuno, per lavorare sugli aspetti disfunzionali e per comprendere la storia, eventualmente conoscendo e trattando elementi traumatici vissuti e integrando i vari interventi. Lo psicoterapeuta PPI come case manager favorisce la comunicazione tra gli attori coinvolti nell’aiuto al bambino, dando senso alla relazione con la realtà sentita da lui.

Se desideri approfondire questo tema clicca qui.

Autrici: Valentina Battisti, Silvia Battisti, Martina Marcelletti

Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata

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Psicologia Live / La didattica a distanza tra sfide e limiti https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-la-didattica-a-distanza-tra-sfide-e-limiti.html https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-la-didattica-a-distanza-tra-sfide-e-limiti.html#respond Thu, 07 May 2020 09:43:25 +0000 https://www.cblive.it/?p=92713 L’emergenza in atto sta ridefinendo e riorganizzando in maniera imponente e emotivamente pregnante la vita di ognuno di noi, e in misura non meno importante quella di bambini e ragazzi. Bambini e ragazzi che fino a qualche mese fa erano soliti frequentare la scuola, incontrare gli amici, confrontarsi con gli educatori, si sono ritrovati a …

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L’emergenza in atto sta ridefinendo e riorganizzando in maniera imponente e emotivamente pregnante la vita di ognuno di noi, e in misura non meno importante quella di bambini e ragazzi.

Bambini e ragazzi che fino a qualche mese fa erano soliti frequentare la scuola, incontrare gli amici, confrontarsi con gli educatori, si sono ritrovati a dover ripensare al loro modo di fare scuola, di fare i compiti e vivere la classe.

Sono state stravolte le modalità e i processi dell’apprendimento, un apprendimento che oggi è veicolato esclusivamente dal mezzo tecnologico seppur dall’altra parte presente la docente.

Sicuramente si sta concretizzando un modo di fare scuola, di apprendere che sembra molto vicino a quello che è il mondo delle nuove generazioni considerate nativi digitali”, ma bisogna essere molto cauti a pensare che l’apprendimento possa concretizzarsi e strutturarsi in maniera salda e costruttiva esclusivamente attraverso questa modalità.

L’ambiente di apprendimento, le relazioni, le emozioni e le interazioni supportano i processi di apprendimento molto più di quello che si possa pensare, sono il terreno per un apprendimento reale e significativo.

Bisogna ripensare al processo di apprendimento, e se è vero che ad oggi esso debba includere necessariamente l’ausilio di strumenti informatici e tecnologici (basti pensare che essi sono indispensabili per bambini e ragazzi con DSA ma necessari e utili anche a tutto il resto della classe) è anche vero che non può prescindere dalla relazione con l’altro significativo, sia esso il docente o il compagno di classe.

Non accumuliamo conoscenza ma la costruiamo, e come possiamo pensare che l’alunno riesca a costruirla in un ambiente seppur interattivo ma nella solitudine della sua cameretta?

Come possono le emozioni veicolarsi attraverso lo schermo?

Lo stesso VygotskiJ sosteneva che l’emozione “influisce nel processo di apprendimento, in quanto agisce come guida” e Piaget sottolineava l’essere necessario dell’interazione tra cognizione e affettività.

dott.ssa Piera Giuliano – Psicologa dell’età evolutiva

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Psicologia Live / Emergenza Covid: come affrontare le conseguenze psicologiche https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-emergenza-covid-come-affrontare-le-conseguenze-psicologiche.html https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-emergenza-covid-come-affrontare-le-conseguenze-psicologiche.html#respond Wed, 22 Apr 2020 09:20:44 +0000 https://www.cblive.it/?p=92280 È di grande attualità l’emergenza COVID-19 dal punto di vista medico-sanitario e delle misure da mettere in atto per contrastarla, dei dati del contagio e della letalità del virus, ma è stata poco affrontata la tematica delle ripercussioni emotive che si avranno, vivendo in questo periodo di isolamento forzato. Il lavoro psicologico di stare con il dolore …

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È di grande attualità l’emergenza COVID-19 dal punto di vista medico-sanitario e delle misure da mettere in atto per contrastarla, dei dati del contagio e della letalità del virus, ma è stata poco affrontata la tematica delle ripercussioni emotive che si avranno, vivendo in questo periodo di isolamento forzato.

Il lavoro psicologico di stare con il dolore del’altro è, ad oggi, lasciato quasi totalmente all’enorme impegno di associazioni o di singoli professionisti che gratuitamente forniscono supporto telefonico alla popolazione per il bene e la vicinanza comune.

La situazione di emergenza dovuta alla pandemia, mette a dura prova la salute psicologica, soprattutto perché la “sospensione dalla normalità” non è facilmente metabolizzabile da tutti, ognuno reagisce secondo i propri tempi e utilizza la propria capacità di  coping sviluppata fino ad oggi, ovvero impiegando i propri meccanismi psicologici adattivi messi in atto per fronteggiare e tollerare al meglio lo stress a cui siamo sottoposti quotidianamente.

Da un giorno all’altro ci si ritrova a non poter essere circondati dall’affetto dei nostri amati, a non poter frequentare gli amici, a rinunciare alle relazioni con gli altri, che rappresentano per gli uomini la principale fonte di piacere e di conforto, di scambio e di confronto, soprattutto in caso di necessità. E’ possibile dunque notare, oltre ad uno stato di incertezza e preoccupazione rispetto l’oggi e il domani, il drastico cambiamento che ha minato lo stile di vita e la libertà individuale delle persone.

Le persone, per contrastare la rassegnazione mobilizzata dalla pandemia, si sono fatte forza a vicenda, hanno tentato di creare un’identità sociale comune connota da altruismo, scambio, confronto e crescita, attraverso incontri dai balconi o sui social network, facendo emergere un popolo unito nell’emergenza, non individualista come quello che è stato negli ultimi decenni.

Le reazioni psicologiche che l’emergenza da Covid-19 sta sollecitando sono riscontrabili non solo a livello individuale, ma anche collettivo in quanto, soprattutto durante le prime fasi dell’epidemia, le persone in massa si sono allontanate dalle zone critiche raggiungendo i propri cari lontani, hanno assalito i supermercati adottando dunque comportamenti connotati da eccessi in reazione ad una situazione di crisi che genera panico ed irrazionalità.

Le risposte individuali variano in base alle risorse personali, alla famiglia d’origine ed attuale, al contesto socio-culturale di ciascuno che, a loro volta, modulano i livelli di ansia e di paura sperimentati. Alcuni individui provano solo normali sentimenti di solitudine, vuoto, tristezza, mancanza, che si uniscono alle preoccupazioni per la salute, per le finanze e per il futuro; essi si configurano come  stati emotivi intensi ma sopportabili perché transitori e fronteggiabili. Oltre ad attivare le emozioni fin ora evidenziate, il virus slatentizza l’impotenza psichica dovuta al trauma (Freud, 1926) per cui, le perdite, la destrutturazione e gli sconvolgimenti del quotidiano, divengono maggiormente difficili da essere gestiti, ancor di più per chi già si trovava in determinate condizioni psicopatologiche, di fragilità o di disabilità.

E’ bene dunque prestare attenzione allo stato di salute psicologico, soprattutto delle persone più a rischio aiutandole a ridurre la percezione di isolamento e di alienazione, attraverso l’uso dei mezzi tecnologici di cui disponiamo, anche se questi ultimi non equivalgono alla relazione autentica, ma “tamponano” l’assenza di essa, assolvendo nel virtuale la funzione di presenza e supporto.

Lì dove si ravvisino segnali di malessere e perdite importanti che potrebbero comportare una caduta depressiva non risolvibile con il ritorno alla normalità è necessaria la frequentazione, seppur attualmente tramite dispositivi elettronici, di luoghi di cura per rielaborare il passato e ricollegarsi al presente, consentendo al sintomo di passare per la parola liberatrice.

E’ importante sottolineare che solo attraverso un’informazione responsabile è possibile affrontare le preoccupazioni e l’incertezza della comunità, evitando che esse si trasformino in comportamenti incontrollati che, tuttavia, possono diventare rischiosi e sfociare in disturbi. Occorrerebbe però anche un congruo numero di specialisti della salute mentale che curino la comunicazione sull’impatto psicologico dell’epidemia di COVID-19, i sentimenti di vuoto e abbandono delle persone, attraverso un ascolto attivo, partecipe e attento dei vissuti altrui, garantendo empatia, ma al tempo stesso la giusta distanza, e capacità di contenere le angosce altrui, a partire dalla risonanza emotiva che la persona suscita nel professionista.

Lo scenario che affolla la mia mente in questo periodo è metaforicamente quello bellico, in cui muoiono tanti innocenti e anche “eroi” che salvano gli altri, in cui vi è un contrasto tra il mondo interno delle persone e quello esterno imposto dalla realtà, tra individui paralizzati dentro le case e grande mobilità all’interno degli ospedali e delle cliniche.

La riflessione suscitata dall’emergenza è che, anche questa volta, la nostra nazione scende in campo le sue forze per “vincere la guerra” ma si rivela esser poco sostenuta nella sua gestione emotiva, sia rispetto il personale che vi opera, che per quanto riguarda gli utenti affetti dalla malattia, che rispetto le famiglie degli utenti e dei sanitari. Il virus viene descritto come un nemico forte e meschino, a causa della sua invisibilità nello sferrare l’attacco all’avversario, lasciandolo nei casi più gravi, morire da solo, senza il sostegno emotivo dei familiari che, a loro volta, non hanno la possibilità di elaborare adeguatamente il lutto.

Concludo l’articolo con l’augurio che in una società, sempre più esposta alle emergenze, non solo sanitarie ma anche ambientali, lo Stato possa pensare all’intervento degli psicologi-psicoterapeuti in termini di prevenzione, non solo di abilitazione e riabilitazione in condizioni nefaste, affinchè le persone possano auspicare davvero a condizioni di benessere garantendo una dignitosa qualità della vita per tutti.

 

Dott.ssa Simona Pranzitelli; Psicologa clinica e dell’emergenza; Esperta in Psicodiagnosi clinica e forense; Membro ordinario Società Italiana Rorschach. Si occupa di consulenze psicologiche, disabilità, diagnosi multidimensionale, laboratori psico-espressivi

 

BIBLIOGRAFIA: Stare con il dolore in emergenza, Franco Angeli, DI IORIO, GIANNINI (2018); La cura psicoanalitica, Bollati Boringhieri, KOHUTH (1986); La voce del corpo, BRIA; BUSATO BARBAGLIO, RINALDI Franco Angeli (2009.

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Psicologia Live / Eiaculazione precoce: non solo questione di tempi. Le dinamiche psicologiche e sociali del fenomeno https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-eiaculazione-precoce-non-solo-questione-di-tempi-le-dinamiche-psicologiche-e-sociali-del-fenomeno.html https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-eiaculazione-precoce-non-solo-questione-di-tempi-le-dinamiche-psicologiche-e-sociali-del-fenomeno.html#respond Thu, 02 Apr 2020 14:30:14 +0000 https://www.cblive.it/?p=91697 L’eiaculazione precoce è una condizione inconfondibile, ma anche difficile da definire con precisione. Considerando i dati presenti in letteratura, per precocità si intende una condizione per cui un uomo è incapace di esercitare un controllo volontario sul proprio riflesso eiaculatorio e dopo aver raggiunto l’eccitazione sessuale raggiunge molto rapidamente l’orgasmo. Per alcuni studiosi si parla …

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L’eiaculazione precoce è una condizione inconfondibile, ma anche difficile da definire con precisione.

Considerando i dati presenti in letteratura, per precocità si intende una condizione per cui un uomo è incapace di esercitare un controllo volontario sul proprio riflesso eiaculatorio e dopo aver raggiunto l’eccitazione sessuale raggiunge molto rapidamente l’orgasmo.

Per alcuni studiosi si parla di eiaculazione precoce considerando il tempo che intercorre tra l’inserimento vaginale e l’eiaculazione, per altri teorici basta raggiungere l’orgasmo prima della donna.

Nessuna di queste teorie può essere considerata un buon criterio diagnostico.

La precocità non può essere definita quantitativamente, poiché la patologia non si definisce in relazione al tempo, non importa se ciò avvenga dopo due o cinque movimenti coitali, se avvenga prima o dopo che la donna abbia raggiunto l’orgasmo.

La precocità viene definita tale quando l’orgasmo avviene per riflesso fuori dal controllo volontario del maschio dopo un’alta eccitazione sessuale (Kaplan, 1974).

Tuttavia oltre a queste considerazioni oggettive bisogna tener conto di ciò che soggettivamente avviene all’interno della coppia. Se nonostante la precocità i partner sono soddisfatti non si può parlare di patologia.

La sessualità è libera e prevede mille modi di eccitazione ed espressione, essa è un vestito cucito su misura ed è variabile da persona a persona.

C’è una variazione del numero di spinte pelviche che un uomo può tollerare prima dell’orgasmo, oppure ci sono numerose reazioni all’interazione con la partner come ad esempio un’eccitazione talmente intensa da far avvenire l’eiaculazione nel momento in cui la partner inizia a spogliarsi, oppure semplicemente durante i preliminari.

I fattori sociali giocano un ruolo molto importante nella psicologia dell’uomo, come ad esempio avere degli stereotipi riguardo la dimensione del pene o la durata ideale di un atto sessuale. Questi fattori sociali possono, soprattutto nelle persone ansiose, portare ad avere un’idea distorta della propria sessualità, avendo come risultato solo una compromissione emotiva e prestazionale.

La capacità di controllare la propria eiaculazione è un aspetto molto importante per una buona prestazione sessuale. Il partner ideale deve essere in grado di continuare ad impegnarsi nelle mansioni sessuali in uno stato di alto eccitamento in modo tale da portare la donna, più lenta a reagire, a un alto stato di piacere. In realtà se l’uomo è sicuro della propria abilità di controllo sulla propria reazione, anche le prestazioni più lunghe sono tollerabili, danno alla coppia l’occasione di esplorare diverse pratiche sessuali.

L’uomo ansioso, preoccupato dal giudizio della partner e di fare “cilecca” sconvolge il rapporto sessuale.

La donna inconsapevole degli stati mentali e degli sforzi che il compagno fa per evitare che i pensieri disfunzionali prendano il sopravvento, si sente respinta e preoccupata dal suo comportamento.

I due coniugi sono molto rammaricati per confidarsi l’uno con l’altro, così da trovarsi in un circolo vizioso di rabbia. In alcune situazioni la scarsa comunicazione e la rabbia può far risentire alla coppia di tale rammarico, tanto da aumentare le distanze tra i partner e portare alla rottura.

Considerando che l’eiaculazione precoce è uno tra i disturbi sessuali di cui maggiormente si lamentano gli uomini è molto importante rivolgersi ad uno specialista come ad esempio l’urologo per eseguire tutti gli accertamenti medici, per poi passare ad una terapia di tipo psico-sessuologica maggiormente indicata in questi casi.

Ilaria Zeoli – Psicologa

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Dott.ssa Antonella Petrella, psicologa- Psicoterapeuta
Dott.ssa Antonella Petrella, psicologa- Psicoterapeuta

Cosa spinge a comportamenti irrazionali, come, per esempio,  prendere d’assalto i treni e cominciare un vero e proprio esodo, incuranti dei danni e delle conseguenze che un comportamento così avventato porterà da qui a poco nelle vite di tutti noi?

Incoscienza? Poco senso civico? Incuranza delle regole? Sfiducia nel sistema? Egoismo?

Forse.

Ma forse anche la paura, nello specifico, la paura per la propria incolumità.

Questa emozione ci fa schiantare con violenza contro il muro di un effetto paradosso e ci porta esattamente lì dove non vorremmo andare, esattamente verso ciò che vorremmo fuggire.

La paura è una delle emozioni primarie, una delle più conosciute ed allo stesso tempo delle più temute e considerate meno accettabili.

Eppure, per quanto la si voglia nascondere, il nostro organismo ce la fa sentire fisiologicamente e talvolta ci fa agire inconsapevolmente in funzione ad essa.

Tuttavia, la paura non è nostra nemica se ne cogliamo la sua vera funzionalità e la proporzioniamo al contesto.

Essa ha la prerogativa di proteggerci, è pertanto utile alla nostra sopravvivenza e da considerare assolutamente una nostra alleata.

Utilizziamola in modo costruttivo per mettere in atto comportamenti protettivi.

Vi faccio un esempio, la paura del fuoco ci rende prudenti e ci protegge dalle scottature, così, ora, la paura del contagio da Coronavirus dovrebbe renderci altrettanto prudenti ed aiutarci a seguire le indicazioni delle autorità sanitarie.

E’ alquanto evidente però che, in questo ultimo caso, pare non sia così.

Perché?

Probabilmente perché il dilagare dei contagi risponde esattamente a ciò che attiva il meccanismo della paura. La paura è attivata infatti dai fenomeni nuovi, quelli rari e che ancora non sono del tutto conosciuti e che minacciano la nostra incolumità, mettendoci in pericolo.

In questo caso abbiamo inoltre  un’aggravante di cui tenere conto e cioè la sconsiderata diffusione delle informazioni che spesso avviene tramite i mezzi di comunicazione non ufficiali, quali i social e seminano il panico, sfociando in quei comportamenti irrazionali ed avventati che noi tutti, in questi giorni, identifichiamo come “psicosi”.

Il Coronavirus causa pertanto disagio psicologico, paura e la cosiddetta “psicosi” perché, al di là della sua reale natura virale, ci viene presentato con:

  • informazioni che favoriscono in noi il dubbio e l’assenza di controllo (non sapere con esattezza cosa sia, la sua origine e la sua evoluzione);
  • catastrofizzazione (una modalità che apre solo prospettive drammatiche e senza soluzione);

favorendo cosi:

  • l’ aumento dei sensi di colpa (non sapendo se noi stessi ne siamo portatori e abbiamo contagiato involontariamente qualcuno);
  • la concentrazione selettiva sulle notizie negative che rinforzano il circolo vizioso dell’ansia e della paura;
  • l’ aumentano il senso di allarme e di pericolo che facilita atteggiamenti impulsivi e danneggia le relazioni.

Un validissimo aiuto per la gestione psicologica dello stato di emergenza arriva dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi Italiani (CNOP) che prontamente ha divulgato un utile vademecum con le migliori indicazioni per meglio gestire le nostre preoccupazioni relative al momento che stiamo vivendo.

Il CNOP fornisce indicazioni anti-ansia e  suggerisce le buone pratiche per affrontare l’emergenza (il pieghevole potrà essere scaricato anche da  questa pagina) come segue:

  • Attenersi ai fatti, cioè al pericolo oggettivo. Il Coronavirus è un virus contagioso ma come ha sottolineato una fonte OMS su 100 persone che si ammalano 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi gestibili in ambiente sanitario, solo il 5 hanno problemi più gravi e tra questi i decessi sono circa la metà ed in genere in soggetti portatori di altre importanti patologie.
  • Non confondere una causa unica con un danno collaterale. Molti decessi non sono causati solo dall’azione del coronavirus, così come è successo e succede nelle forme influenzali che registrano decessi ben più numerosi.  Finora i decessi legati al coronavirus sono stimati nel mondo sono cento volte inferiori a quelli che si stima causi ogni anno la comune influenza. E tuttavia questo 1% si aggiunge ed è percepito in modo diverso dai “decessi normali”. Finora nessuno si preoccupava di una forte variabilità annuale perché tutti i decessi venivano attribuiti all’influenza “normale”: nell’ultima stagione influenzale sono scomparsi 34.200 statunitensi e, l’anno prima, 61.099.

 

  • Se il panico diventa collettivo molti individui provano ansia e desiderano agire e far qualcosa pur di far calare l’ansia, e questo può generare stress e comportamenti irrazionali e poco produttivi. Farsi prendere dal contagio collettivo del panico ci porta a ignorare i dati oggettivi e la nostra capacità di giudizio può affievolirsi. Pur di fare qualcosa, spesso si finisce per fare delle cose sbagliate e a ignorare azioni protettive semplici, apparentemente banali ma molto efficaci come quelle suggerite dalle Autorità Sanitarie.

  • In linea generale troppe emozioni impediscono il ragionamento corretto e frenano la capacità di vedere le cose in una prospettiva giusta e più ampia, allargando cioè lo spazio-tempo con cui esaminiamo i fenomeni. E’ difficile controbattere le emozioni con i ragionamenti, però è bene cercare di basarsi sui dati oggettivi. La regola fondamentale è l’equilibrio tra il sentimento di paura e il rischio oggettivo.

  • Siamo preoccupati della vulnerabilità nostra e dei nostri cari e cerchiamo di renderli invulnerabili. Ma la ricerca ossessiva dell’invulnerabilità è contro-producente perché ci rende eccessivamente paurosi, incapaci di affrontare il futuro perché troppo rinchiusi in noi stessi.

Tre buone pratiche per affrontare il Coronavirus:

  • Evitare la ricerca compulsiva di informazioni.

Abbiamo visto che è normale e funzionale, in chiave preventiva, avere paura davanti ad un rischio nuovo, come l’epidemia da coronavirus: ansia per sé e i propri cari, ricerca di rassicurazioni, controllo continuo delle informazioni sono comportamenti comprensibili e frequenti in questi giorni. E tuttavia la paura si riduce se si riflette sul suo rapporto con i pericoli oggettivi e quindi si sa con chiarezza cosa succede e cosa fare.

  • Usare e diffondere fonti informative affidabili.

E’ bene attenersi a quanto conosciuto e documentabile. Quindi: basarsi SOLO su fonti informative ufficiali, aggiornate e accreditate.

Il Coronavirus non è un fenomeno che ci riguarda individualmente. Come nel caso dei vaccini ci dobbiamo proteggere come collettività responsabile. I media producono una informazione che può produrre effetti distorsivi perché focalizzata su notizie in rapida e inquietante sequenza sui singoli casi piuttosto che sui dati complessivi e oggettivi del fenomeno. E’ importante tener conto di questo effetto.

( Fonte delle indicazioni di cui sopra: CNOP)

Nell’attesa che la vita, che ora pare essersi fermata in uno stallo vincolante, ricominci a scorrere e noi a riappropriaci del nostro tempo, unitamente alla nostra normalità, proviamo a non perderci e disperderci nei meandri insidiosi della paura negativa, quella che è cattiva maestra di vita.

Proviamo a vedere e rendere la  stessa paura che ci paralizza, una nostra alleata perché si possa agire con lucidità e soprattutto, con prudenza.

Proviamo a stare e vivere il momento che abbiamo, con quello che siamo e con le fragilità che ci portiamo dietro. Proviamo a restare, piuttosto che scappare (più o meno metaforicamente) da questa difficoltà.

E’ solo così che potremmo continuare il nostro cammino, senza fermare il basso.

Mai come in questo momento dobbiamo avere obiettivi e prospettive future, guardare al domani e andargli incontro vivendo il presente.

Buon cammino lungo questo sentiero insidioso. Giunti alla meta ci guarderemo alle spalle e noteremo, oltre alla strada percorsa, di avere gambe più forti, capaci di camminare su tracciati impervi e  di superarli.

Dott.ssa Antonella Petrella, psicologa- Psicoterapeuta

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Psicologia Live / Come fare dell’Arte uno strumento di Resilienza https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-come-fare-dellarte-uno-strumento-di-resilienza.html https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-come-fare-dellarte-uno-strumento-di-resilienza.html#respond Sat, 07 Mar 2020 08:50:30 +0000 https://www.cblive.it/?p=90438  “Devi resistere!” Quante volte ci siamo sentiti dire questa frase trovandoci in un periodo di cambiamento che comporta, necessariamente, una riorganizzazione della propria vita? Chiunque abbia fatto esperienza di un momento di transizione particolarmente stressante o doloroso (nascite, lutti, perdita del lavoro, relazioni non più soddisfacenti ecc..) in cui la vita ci impone, volenti o …

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 “Devi resistere!”

Quante volte ci siamo sentiti dire questa frase trovandoci in un periodo di cambiamento che comporta, necessariamente, una riorganizzazione della propria vita?

Chiunque abbia fatto esperienza di un momento di transizione particolarmente stressante o doloroso (nascite, lutti, perdita del lavoro, relazioni non più soddisfacenti ecc..) in cui la vita ci impone, volenti o nolenti, a dover cambiare qualcosa, sa benissimo che non è così facile voltare pagina.

Sempre più spesso i contesti sociali nei quali ci muoviamo, non sono in grado di gestire quei momenti di crisi che, almeno una volta nella vita, colpiscono il singolo individuo rendendolo vulnerabile e “diverso” da come gli altri sono abituati a vederlo.

Coloro i quali dovrebbero comprendere, accogliere e aiutare l’individuo nel superamento della crisi, finiscono per esserne spaventati tenendosi ad una “distanza di sicurezza” che in qualche modo, pensano possa preservarli dalla sofferenza. Tali vissuti di spaesamento, impotenza ed evitamento suscitano, nei vari sistemi interpersonali a cui la persona appartiene, un’inconscia messa in atto di dinamiche finalizzate a riportare le cose all’equilibrio precedente – equilibrio omeostatico – dove la persona era prevedibile e controllabile e dove “le cose andavano bene”.

Nulla succede per caso. Se quel particolare momento di vulnerabilità e di blocco individuale si è presentato proprio ora, vuol dire che le cose non andavano poi così bene e che il sintomo manifestato dal singolo, altro non è che espressione di un malessere di un sistema più grande come, ad esempio, la famiglia a cui quella persona appartiene.

È fondamentale, per far fronte ad un qualsiasi cambiamento in maniera costruttiva e funzionale, non opporsi ad esso, non resistere ma al contrario, farsi trovare disarmati e in un certo senso impotenti per poter accogliere ciò che di buono quel particolare momento ha in serbo per noi.

Resistere vuol dire opporsi al cambiamento. Ben altra cosa è, invece, se iniziamo a ragionare in termini di resilienza.

La giornalista e critica musicale Paola Maugeri, nel suo libro “Rock and Resilienza” così descrive questa fondamentale e innata capacità insita in ogni essere umano:

“Essere resilienti è più che resistere, significa imparare a vivere facendo dell’ostacolo un trampolino di lancio, della fragilità una ricchezza, della debolezza una forza, dell’impossibilità una serie di possibilità”.

La resilienza, è quindi l’unica risorsa funzionale per oleare meccanismi bloccati; l’unica palestra capace di allenare la propria creatività e il proprio pensiero divergente, carburanti per rimettere in moto la nostra vita e le nostre relazioni.

Per scorgere quanta resilienza c’è dentro ognuno di noi è importante soffermarsi su alcuni aspetti.

Innanzitutto l’essere umano deve fare i conti con il Tempo che passa e col fatto che non è infinito. Premessa apparentemente ovvia ma necessaria per ridimensionare il dolore e dare senso alla propria vita.

Per vivere un’esistenza in pienezza è fondamentale sintonizzarsi con i desideri più autentici che ogni individuo racchiude in sé poiché sono quelli che plasmano il futuro di ognuno di noi, ovvero il tempo che ci resta e che non ci è dato sapere quanto lungo sia. I desideri possono essere influenzati da due forze: Eros e Thanatos – Amore e Morte – che sono i due veri padroni dell’anima. Eros rappresenta la creatività e la spinta verso la vita; esso decide chi deve giocare la partita della vita.

Nella sua squadra Eros schiera vari “giocatori”: Narciso ovvero l’amor proprio, che è il più importante, dovrebbe sempre avere il posto d’onore dato che l’essere umano senza di lui, perde il senso della propria vita. Gli altri giocatori schierati da Eros portano il nome di Dioniso, Venere ed Edipo. Ognuno di loro scende in campo per giocare la partita della vita ma se diamo troppo spazio ad uno solo di loro potremmo perdere di vista quelli che sono i nostri desideri più profondi e di conseguenza il senso della vita.

Non bisogna, però, mai dimenticare che l’altro padrone dell’anima è Thanatos, la spinta mortifera, il quale si astiene dal giocare la partita della vita anche se, a bordo campo, è sempre presente.

Avere consapevolezza di Thanatos è fondamentale per l’essere umano; tale consapevolezza non deve essere vissuta in maniera angosciante ma in maniera dialogica: solo ricordandoci che la Vita è a tempo potremmo viverla con uno slancio vitale davvero creativo, in pienezza e seguendo dignitosamente quelli che sono i desideri più profondi di ognuno di noi.

Ma cosa c’entra l’arte con tutto questo? Perché l’Arte è così importante per l’essere umano?

L’uomo è l’organismo vivente più complesso: vive su più livelli alcuni dei quali sono totalmente impercettibili e indescrivibili con le semplici parole.

L’Arte, sin da quando è nata, veicola tutta la complessità umana, su più livelli:

  • è espressione individuale di un pensiero unico e irripetibile;
  • ha funzione di specchio, ovvero consente di guardarci dentro, sollecitare alcune corde interiori ed esplorare delle nostre parti interne che nemmeno sapevamo di avere;
  • è promotrice di nuove idee e nuove domande;
  • ha una funzione relazionale poiché ci fa sentire parte di un qualcosa di più grande.

Essendo veicolo di creatività, dunque, l’Arte conduce l’essere umano verso un movimento sano e vitale che gli permette di rimettersi in discussione allenando la flessibilità cognitiva, l’adattabilità comportamentale e la resilienza emotiva. Grazie al suo enorme potere trasformativo, l’Arte cura e armonizza il dentro -intrapsichico-  e il fuori -interpersonale- di una persona.

Vorrei soffermarmi, in particolare su una forma specifica di Arte, la Musica, di cui spesso mi avvalgo nel lavoro con i miei pazienti nella stanza di terapia.

Proprio per la sua natura incorporea ma immediata, il linguaggio musicale risulta essere uno strumento utilissimo.

In primis, essa risuona nel paziente connettendolo alle sue “note” più profonde e, molte volte, nascoste.

In secondo luogo è utile per creare una relazione terapeutica autentica ed evolutiva all’interno della quale poter sperimentare ciò che è nuovo.

La relazione terapeutica, è importante chiarire, non è evolutiva di per sé: essa necessita di un reciproco lavoro, molte volte non semplice, tra terapeuta e paziente. Solo quando quest’ultimo decide di prendersi la propria parte di responsabilità all’interno del processo di cura, la relazione diventa davvero trasformativa e autentica; l’autenticità ovvero entrare in terapia con il cuore aperto, è un elemento necessario e fortemente incentivato dall’uso dell’Arte e della Musica, nella fattispecie. Infine, attraverso parole e musiche non direttamente create dal paziente, è possibile trasformare vecchi schemi con i quali esperire il mondo e le relazioni in nuovi modi di pensare, sentire e agire, dando un nuovo senso a situazioni che, per troppo tempo avevano avuto una sola chiave di lettura.

Tali esperienze cliniche mi hanno permesso di constatare quanto sia grande il potere evocativo e trasformativo di particolari accoppiate di parole e musica; un potere che travalica l’inesorabile fugacità della memoria individuale per collocarsi all’interno di una memoria collettiva più ampia, in cui i vissuti di un particolare membro di un sistema familiare, in una particolare situazione, possono essere rievocati e riavvicinare i cuori.

Per questo ritengo che la psicoterapia sia il luogo in cui l’essere umano riscopre la Bellezza: di se stesso, delle relazioni e del mondo spingendolo ad andare oltre se stesso, verso la creatività vitale di Eros.

“Creatività significa aver portato a termine la propria nascita prima di morire” – Erich Fromm –

 

Dott.ssa Magda Cacchione- Psicologa clinica; Psicoterapeuta Sistemico – Relazionale

 

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Psicologia live / L’uso della fiaba nella clinica e nei laboratori psico-espressivi https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-luso-della-fiaba-nella-clinica-e-nei-laboratori-psico-espressivi.html https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-luso-della-fiaba-nella-clinica-e-nei-laboratori-psico-espressivi.html#respond Thu, 27 Feb 2020 17:40:27 +0000 https://www.cblive.it/?p=90207 “Le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. Perché i bambini lo sanno già. Le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti”. GK Chesterton La fiaba di trazione orale riveste sin dall’’antichità grande importanza ed è funzionale utilizzarla e tramandarla in una società sottoposta a rapidi cambiamenti e turbolenze, come …

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“Le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. Perché i bambini lo sanno già. Le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti”. GK Chesterton

La fiaba di trazione orale riveste sin dall’’antichità grande importanza ed è funzionale utilizzarla e tramandarla in una società sottoposta a rapidi cambiamenti e turbolenze, come quella attuale, al fine di nutrire la psiche umana.

La sua riscoperta si pone come possibilità di comunicazione in ambito clinico, educativo e familiare poiché narrare è essenziale per la vita psichica come il cibo lo è per la vita biologica.

La fiaba viene utilizzata soprattutto nella lettura psicoanalitica poiché si ritiene che essa nutra, stimoli e aiuti la fantasia infantile e lo sviluppo psicologico di bambini e adulti poiché svolge una funzione  di filtro per la mente spesso affollata.

Tra le riflessioni maggiormente illuminanti a tal proposito è doveroso citare Freud, che equipara la fiaba al sogno e Bettelheim che individua gli elementi del “racconto magico” per utilizzarlo a fine terapeutico.

Un altro autore che merita di essere citato è Lafforgue che dà voce ai conflitti psichici suggerendo possibili mediazioni, dando modo al bambino di avere modelli di identificazione che gli permettano di pensare ed esplorare parti mai espresse nel proprio  mondo interno.

Lafforgue, inoltre, ritiene che attraverso la fiaba si possa aiutare il bambino a costruire quelle capacità mentali che ancora non sono attivate in alcuni, permettendo inoltre di accogliere angosce altrimenti non tollerabili.

L’’utilizzo della fiaba in ambito terapeutico serve per promuovere lo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino, facilitando lo sciogliersi e il ridimensionamento di alcuni conflitti psichici.

Diversi professionisti hanno attinto dalla Harris, la quale ha utilizzato la fiaba in terapia per un suo paziente, un bambino di 3 anni che in seguito alla nascita di un fratellino aveva sviluppato diverse problematicità: attraverso l’ascolto della storia l’infante si è identificato con il contenuto poiché in essa vi riscontrava tutte le emozioni che anche lui provava, scoprendo parole e immagini atte a descrivere i suoi sentimenti, imparando a distanziarsene alle volte e accettando possibili evoluzioni.

Si può, quindi, pensare alla funzione di contenimento della fiaba, analoga alla funzione della madre, che dá significato e accoglie ogni sentimento, facendosi anche carico del disagio intollerabile del neonato.

La tecnica adottata nei laboratori fiaba, ispirata dunque ai concetti psicoanalitici, è molto rigorosa poiché per contenere gli elementi arcaici sollecitati dalla fiaba raccontata, ogni aspetto del setting va pensato al fine di contrastare l’indifferenziazione, promuovendo un graduale emergere del Sè individuale.

La fiaba si pone come uno strumento d’’ntercomunicazione tra adulti e bambini in cui la figura del narratore è rilevante poiché contiene e condivide il buon nutrimento, coinvolge i lettori in storie ricche di emozioni, entrando con voce modulata nel racconto, contenendo le paure dei più piccoli, stabilendo limiti e partecipando con sguardo, espressioni e musicalità alla ricca e avventurosa narrazione.

Oltre la figura del narratore e la platea dei curiosi lettori, è fondamentale la figura dell’’osservatore che raccoglie materiale prezioso rispetto il rapporto che ogni bambino ha con la fiaba in questione e sul mondo interno. A tal proposito, con tale materiale, l’equipè discute di quanto accaduto in ogni incontro e si pensa a un intervento  per aiutare il singolo e il gruppo nel migliore dei modi affinche sia possibile compiere anche piccole trasformazioni verso l’autentico sviluppo.

Vitale importanza riveste anche lo spazio in cui si svolge il laboratorio: deve essere anch’’esso accogliente poiché rientra tra gli elementi cardine per creare rassicurazione e fiducia di base nei piccoli auditori che entraranno in un un’altra dimensione rispetto il reale per favorire la crescita.

I bambini, oltre al momento di ascolto partecipe e sensibile che permette loro  di esplorare, identificarsi nei panni dei personaggi, formulare ipotesi personali, provare simpatie e antipatie e identificarsi con vissuti emotivi complessi, sono incoraggiati ad esprimere attivamente le proprie libere associazioni.

Vengono valorizzate e considerate portatori di senso oltre le parole tutte le espressioni comunicate con il corpo, sia quelle che vengono rappresentate graficamente tramite il disegno, sia i movimenti corporei, i suoni e ogni forma di comunicazione che il bambino esprime; anche il non ascoltare un contenuto o il voler sentire nuovamente una storia sono importanti modalità espressive.

Gianni Rodari infatti riteveva che i bambini, ascoltando, riconoscono nelle situazioni delle favole situazioni che hanno fatto parte o che fanno parte della loro esperienza, consapevole o no: Pollicino, per esempio, abbandonato nel bosco, è il bambino che teme di essere lasciato ogni volta che la madre o il padre escono di casa, o dalla porta della sua stanza, fino a quando non realizzerà che la loro sparizione è temporanea.

Tuttavia, gli psicologi- psicoterapeuti che lavorano secondo tale metodo si astengono dal dare interpretazioni, fornendo commenti empatici che sostengono il singolo o il gruppo nei momenti di crisi.

L’’equipe che lavora secondo la formazione psicoanalitica ha perfezionato come equipaggiamento mentale la cosidetta “capacità negativa,” ovvero quell’attitudine che permette di sospendere i giudizi prematuri in attesa dell’’emergere del significato più profondo di ciò che accade nel gruppo, tollerando talvolta stati di confusione pur mantenendo il contatto con la realtà.

Dott.ssa Simona Pranzitelli, Psicologa

Perfezionamento in Psicodiagnosi clinica e forense

Membro ordinario Associazione Italiana Rorschach

Si occupa di consulenze psicologiche, disabilità, diagnosi multidimensionale, laboratori psico-espressivi (fiaba, creativo…)

Bibliografia: “Pollicino diventerà grande” di Pierrè Lafforgue e “Il mondo incantato” di Bettelheim.

 

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Psicologia Live / Dire ‘no’ aiuta i bambini a crescere https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-dire-no-aiuta-i-bambini-a-crescere.html https://www.cblive.it/rubriche/psicologia-live/psicologia-live-dire-no-aiuta-i-bambini-a-crescere.html#respond Thu, 20 Feb 2020 17:45:49 +0000 https://www.cblive.it/?p=89978 Il clima di incertezze dovuto ai rapidi cambiamenti storici e sociali influisce in modo estremamente negativo anche sul ruolo dei genitori chiamati a guidare le nuove generazioni. La prospettiva educativa odierna si concentra sulla cura, sull’accudimento e pone i bisogni e i desideri dei figli al centro. La famiglia è il luogo dove deve regnare …

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Il clima di incertezze dovuto ai rapidi cambiamenti storici e sociali influisce in modo estremamente negativo anche sul ruolo dei genitori chiamati a guidare le nuove generazioni.

La prospettiva educativa odierna si concentra sulla cura, sull’accudimento e pone i bisogni e i desideri dei figli al centro. La famiglia è il luogo dove deve regnare l’armonia, il benessere e la felicità. Il bambino non deve né provare emozioni spiacevoli né sperimentare alcuna frustrazione.

Si assiste ad una sorta di dominio del figlio sul genitore, che si sottrae al suo ruolo educativo per paura di ferire, di generare danni allo sviluppo del proprio bambino e soprattutto per non entrare in conflitto, che rappresenta per molti la rottura del rapporto.

Dire “No” rappresenta quasi un tabù per i genitori di oggi mentre invece la negazione rappresenta una funzione regolativa fondamentale per la crescita del bambino.

I  “no” assumono  un valore diverso a seconda dello stadio evolutivo dei nostri figli.

Nella prima infanzia, momento in cui i bambini iniziano ad esplorare il mondo, il “no” è quello del divieto. I genitori attraverso i propri no consentono al bambino di costruirsi una sorta di segnaletica di base entro cui imparare a muoversi senza farsi male.

Dire no è protettivo. Nello specifico intorno ai 2 anni, il bambino inizia egli stesso ad utilizzare il no ed è proprio questo il momento in cui è più semplice che colga il senso del divieto e che lo usi per costruire la propria piccola autonomia, in questa fase in cui si allontana e si riavvicina continuamente alle figure significative alla ricerca di sicurezza.

Sono necessari pochi no detti in modo chiaro, sicuro e semplice, non occorrono particolari spiegazioni in quanto incomprensibili per i più piccoli. È necessario che questi pochi no siano rispettati dai bambini. In particolare i genitori devono avere ancora più attenzione verso quei “no” strutturanti a livello evolutivo come, ad esempio, il no netto e chiaro che i genitori devono dire ai propri figli quando la sera chiedono di dormire nel lettone: il no in questo caso favorisce un distacco sano del bambino dalla madre. In questo stadio inizieranno inevitabilmente i primi conflitti che generano nel genitore le prime ansie e senso di colpa per il mancato soddisfacimento del bisogno imminente da parte del bambino.

È importante ricordare che il conflitto, che ha assunto nella nostra società connotazione negativa, rappresenta un momento importante in cui si favorisce l’uscita da una dinamica fusionale: riconoscere nel proprio figlio una alterità favorisce un distacco progressivo dal genitore utile a far sì che il bambino inizi a sentirsi libero di sviluppare una propria autonomia.

Tra la prima infanzia e la seconda, i bambini iniziano a confrontarsi con una realtà diversa da quella famigliare in quanto entra in contatto con i pari e con la realtà scolastica, e in questo caso i “no”sono quelli del limite. La negazione ha il compito di contenere  la sensazione di onnipotenza tipica dello stadio evolutivo in cui si trova il bambino in questa fascia d’età. Le regole date continuano ad essere poche e chiare ma le spiegazioni diventano importanti e devono essere adatte all’età. Il livello della frustrazione dei propri bisogni e desideri percepito dai bambini aumenta rispetto alla precedente fase evolutiva. Per gestire la frustrazione il bambino è costretto ad attivare nuove competenze,  e si stimola così, nel superamento di questo stadio, l’accrescimento del senso di autostima ed autoefficacia fondamentali per il proprio futuro.

Nella seconda infanzia e preadolescenza il no è quello della regola in senso stretto. Contrariamente a quanto si crede la regola non costituisce un freno alla propria libertà personale. I genitori in questa fase sono chiamati ad indicare quali sono gli ambiti entro i quali i figli possono esprimersi esplicitando cosa è bene non fare nella società.

Nell’adolescenza il no rappresenta, invece, la resistenza. È una negazione che si manifesta  attraverso una conflittualità e consente ai ragazzi di costruire il proprio modo di essere nel mondo, un proprio orizzonte di valori. È un no complesso derivante da una vera e propria negoziazione fra il genitore e il ragazzo non più bambino che spinge per avere sempre più libertà. Sta al genitore attraverso le sue parole insegnare che la propria libertà finisce dove inizia quella altrui e questo succede non solo attraverso un no monosillabico, imposto e calato dall’alto “si fa come dico io finchè vivi sotto il mio tetto” ma attraverso il proprio esempio di comportamento e attraverso un continuo dialogo sincero in cui il figlio e il genitore si ascoltano reciprocamente nei propri bisogni e desideri.

Certo riuscire a ponderare il “no” corretto nelle diverse fasi evolutive non è semplice per un genitore che spesso è lasciato solo nel suo ruolo educativo. Si oscilla nel dire troppi sì o troppi no passando rispettivamente da uno stile iperprotettivo-apprensivo ad uno stile notevolmente autoritario. È importante che i genitori riflettano e scelgano una cornice educativa entro cui scegliere i “no” da dire al proprio figlio senza oscillare e tenendola presente sempre. Lo stile autorevole sembra essere il più corretto per una crescita armonica e per il benessere psicologico dell’individuo. Il genitore nelle sue scelte educative mostra sempre al figlio, lungo l’arco della sua vita,  fiducia in lui, nelle sue capacità e nelle sue potenzialità e il ruolo genitoriale sta proprio nel sostenere il figlio a sviluppare le proprie risorse personali. Il genitore autorevole rispetta e si fa rispettare, sapendo essere al contempo flessibile nella gestione del “no”. Una situazione esemplificativa è quando il bambino chiede di vedere la televisione mentre è necessario uscire di casa. Il genitore a quel punto avendo ben chiaro il bisogno di uscire tiene comunque conto del desiderio del bambino e lo rimanda in modo empatico dicendo “so che in questo momento vorresti rimanere a casa per guardare la tv, ma adesso è veramente il momento di andare”.  Ci vuole tanta pazienza e calma per riuscire a rispondere sempre in modo adeguato al proprio figlio ma questo consentirà che questi da adulto sappia tollerare le frustrazioni nelle diverse occasioni che la vita dà, sappia sentirsi sicuro e capace di trovare soluzioni alternative nei vari ostacoli che incontrerà e soprattutto sia in grado di rispettare sé stesso e l’altro perché questo insegna la regola.

Dott.ssa Chiara Cantarini –  Psicologa Psicoterapeuta

 

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