Storie di giovani/Marco Clemente, il tatuatore che trasforma emozioni effimere in storie indelebili (photogallery)
MARIA CRISTINA GIOVANNITTI
“Quando tatuo mi sento vivo. Il tatuaggio è come un quadro da guardare. Se ben fatto è impossibile non subirne il fascino” così si racconta Marco Clemente, 25 anni, tatuatore professionista. È lui che, nel suo studio ‘Golden Ink Tattoo Parlour’ nel cuore di Campobasso, marchia in modo indelebile emozioni e ricordi e li rende ‘storia’ sulla pelle dei suoi clienti. Dalla nonnina che si tatua i nomi dei nipoti, ai giovanissimi ben informati sulle tecniche di lavoro, Marco ci parla dell’evoluzione del tattoo: da ‘tatuaggio criminale o carcerario’ a quello che è oggi, non solo arte ma una vera e propria cultura.
Cos’è per te un tatuaggio? “Per me il tatuaggio è innanzitutto il portare avanti una tradizione. La pratica del tatuaggio ha, infatti, origini millenarie che risalgono a più di 5 mila anni. Il tatuaggio è stato il simbolo di numerose civiltà, sia antiche che contemporanee e rappresenta quindi un’identità culturale, oltre che individuale. Oltre ad essere un chiaro omaggio a una tradizione che mi rende orgoglioso di essere un tatuare, il tatuaggio per me è passione pura e dedizione”.
Qual è il percorso per diventare tatuatori professionisti? “Motivazione e talento, in primis. Imprescindibili. Impegno e sacrificio, continua ricerca e sperimentazione. Un continuo mettersi alla prova, con umiltà e modestia. Di sicuro solo il saper disegnare bene non è sufficiente. Oggigiorno si pensa, con mio grande rammarico, che per diventare tatuatori basti davvero poco. E questa è una convinizione tanto errata quanto pericolosa innanzitutto perché chi ha intenzione di fare del tatuaggio il proprio mestiere, deve sostenere un esame abilitativo alle ASL regionali e un corso di formazione professionale. Un tatuatore abusivo, al contrario, pratica pericolosamente perché indifferente e inconsapevole delle inderogabili norme igienico-sanitarie, fondamentali per la tutela del cliente e del tatuatore stesso. Non si diventa professionisti dall’oggi al domani. Talento, gavetta e sostanzialmente tanta esperienza servono tanto per la formazione artistica e la crescita lavorativa di un novello”.
Quale invece la tua personale formazione? “Avevo sei anni quando casualmente mi capitò tra le mani una rivista di tatuaggi . Fu da quel momento che pensai, quasi istintivamente :”da grande voglio fare il tatuatore.” L’amore per il disegno, su tele e sui muri della mia città, mi indirizzò spontaneamente al liceo artistico. Da qui frequentai a Taranto la ” SCUOLA DI TATUAGGIO” di Geppi Serra, un’istituzione in questo settore, presidente dell’ ATIR (ASSOCIAZIONE TATUATORI ITALIANI RIUNITI) e primo in Italia ad aprire, nel lontano 1982, uno studio di tatuaggi su strada (“Army Navy Tattoo Art), prima a Napoli, successivamente a Taranto e Bari. Geppi rappresenta la storia del tatuaggio in Italia. Come lui altri pilastri della storia del tattoo italiano: Fercioni, Fiorini e Rondinella. Subito dopo aver conseguito il diploma a Taranto ho sostenuto l’esame alla Asl molisana. Risultato idoneo ho così aperto il “Golden Ink Tattoo Parlour” nel novembre 2008, nel pieno centro di Campobasso, in via Palombo 20. Lo studio è praticamente la mia seconda casa perché amo il mio lavoro. Per quanto possa essere stressante e impegnativo, amo l’idea di lasciare per sempre un segno indelebile sulla pelle delle persone e dare loro emozioni attraverso il mio mestiere”.
Ricordi il tuo primo lavoro? “Certo che ricordo il mio primo lavoro. Ho tatuato una data: 10.10.2006 a un carissimo amico. Ero emozionatissimo ma comunque molto fiducioso. Il risultato è stato soddisfacente. Ancora ora, quando ci rincontriamo, gli chiedo di mostrarmi il tatuaggio. Lui mi ripete sempre di essere così orgoglioso portare sulla pelle il mio primo tatuaggio in assoluto”.
Non solo lavoro da studio ma convention e corsi professionali … ci racconti tutto l’iter lavorativo di un tatuatore? “Il lavoro di un tatuatore è costantemente stimolato da innovazioni e confronti con colleghi. Personalmente ho avuto l’occasione e il piacere di conoscere colleghi da ogni parte del mondo grazie a convention e guest in vari studi d’Italia. Credo sia fondamentale per la crescita professionale non soffermarsi esclusivamente sul lavoro in studio. Le convention, ad esempio, offrono un’occasione eccezionale per un tatuatore. Girare il mondo, conoscere personalità differenti, ognuna con un proprio stile di vita, che si riflette di conseguenza sul lavoro, è fondamentale per migliorarsi e per trarre tanti spunti”.
Com’è cambiata la cultura che ruota intorno al tatuaggio, scardinandone i tanti pregiudizi? “Nel 1876, Cesare Lombroso, ne “L’uomo delinquente”, scriveva: “La pratica del tatuaggio compare solo nelle infime classi sociali, soprattutto tra i delinquenti di cui esso costituisce un ruolo e carattere anatomico-legale”. Questo pensiero, che tendeva a legare il tatuato a una persona amorale, deviata e pericolosa, è quasi superato del tutto. Oggi, chi decide di tatuarsi, non vede più nel tatuaggio un potente deterrente o un fattore discriminante o di imbarazzo per la società. Oggigiorno, infatti, ci si tatua con meno remore, sicuramente perché c’è molta più informazione al riguardo, a livello di strumentazione e tecnica, principalmente, e perché tutto ciò che gravita intorno al tatuaggio suscita una certa attrazione. Si subisce inevitabilmente il fascino del tatuaggio. E’ arte. E’ impossibile guardare un bel quadro e restarne indifferenti o impassibili. Credo che un tatuaggio eseguito bene attragga molto, molti”.
Qual è il target medio di clienti che frequenta il tuo studio e con quali motivazioni? “Il ‘Golden Ink’ è frequentato da persone di tutte le età. Mi è capitato di tatuare nomi di nipotini ai nonni, ad esempio. Ovviamente sono i giovani che ne sono più attratti. E’ davvero difficile rispondere al “perché ci si tatua?” Le motivazioni sono tante e tutte diverse. In linea di massima, ogni persona ha una storia da raccontare. Una storia drammatica e una con un lieto fine. A volte ci si tatua per il puro gusto di tatuarsi. Il tatuaggio rappresenta un modo come un altro di esprimersi, ecco perché per me è così naturale”.
Ad un giovane che ha la passione per l’arte e che vede come suo futuro uno studio in una città importante, che consigli dare? “Vorrei chiarire, in primis, che non sempre chi è amante dell’arte sia destinato a una carriera da tatuatore. Con questo voglio esattamente dire che per me tatuare è una vocazione. A chi fosse realmente interessato a questo tipo di mestiere, personalmente consiglio di fare tanta gavetta in uno studio e soprattutto di non aver fretta di tatuare a tutti i costi quando ancora non si è pronti perché si rischia di farsi terra bruciata intorno fin da subito. Un pessimo tatuaggio è una pessima pubblicità. Consiglio poi di imparare molto dai tatuatori presso i quali si fa esperienza. Ogni parola, ogni gesto è significativo. Se dicono “no!” non è una privazione o una prevaricazione ma nient’altro che un accortezza e uno stimolo a far meglio. Tatuare bene richiede esperienza e sacrificio”.
Se non fossi diventato un tatuatore, cosa avresti fatto? “Ho fatto del tatuaggio la mia scelta di lavorativa perché non avrei visto altra strada”.