Impara l'arte con... CBlive e Sergio Marchetta Archivi - CBlive https://www.cblive.it/category/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta La città di Campobasso in diretta Tue, 11 May 2021 19:26:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.4.4 https://www.cblive.it/wp-content/uploads/2018/01/cropped-android-icon-144x144-32x32.png Impara l'arte con... CBlive e Sergio Marchetta Archivi - CBlive https://www.cblive.it/category/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta 32 32 Questa sera il vescovo svelerà il busto di San Cristanziano https://www.cblive.it/cultura/questa-sera-il-vescovo-svelera-il-busto-di-san-cristanziano.html https://www.cblive.it/cultura/questa-sera-il-vescovo-svelera-il-busto-di-san-cristanziano.html#respond Wed, 12 May 2021 06:00:12 +0000 https://www.cblive.it/?p=104126 Il patrono per anni senza una statua Sorte ambigua e triste ha avuto finora Cristanziano, raro esempio di Santo Patrono cui da secoli non gli si dedica una statua che, idealmente, lo raffiguri. Pare infatti che nel 1610 un grave incendio abbia devastato la chiesa madre di Agnone e con essa l’altare del Santo Protettore. Agnone rimase dunque …

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Il patrono per anni senza una statua

Sorte ambigua e triste ha avuto finora Cristanziano, raro esempio di Santo Patrono cui da secoli non gli si dedica una statua che, idealmente, lo raffiguri. Pare infatti che nel 1610 un grave incendio abbia devastato la chiesa madre di Agnone e con essa l’altare del Santo Protettore. Agnone rimase dunque priva di un’ effige che ricordasse il suo Santo Maggiore fin quando, in un momento di gravi tensioni sociali, i fedeli pretesero un simulacro a cui porre consigli e rivolgere preghiere. Si giunse ad un accordo: i parrocchiani avrebbero ottenuto una statua dismessa, custodita presso la chiesa di San Pietro Celestino a Maiella, presumibilmente raffigurante san Benedetto.

Finalmente il monumento

Attraverso poche modifiche, quelle suggerite dai devoti cui il Santo era venuto in sogno nella stessa notte, Cristanziano ebbe il suo monumento dove compare con barba, manto rosso , croce, mitra, pastorale e palma dei martiri. Del resto, del diacono nato e decapitato ad Ascoli, poco si sapeva( e si sa) e quel poco deriva dalle conoscenze agiografiche del più noto vescovo Emidio, suo maestro di Fede, unito nel martirio avvenuto sotto Massenzio, durante la persecuzione di Diocleziano. Siamo intorno al 13 maggio del 310 e Cristanziano aveva circa 30 anni. Il culto per i due santi giunge ad Agnone nel medioevo quando si saldano i rapporti commerciali con la città di Ascoli.

Migliaia di pellegrini ad Agnone

Fino a 50 anni fa le celebrazioni per il Santo Patrono, sontuose e partecipate, richiamavano migliaia di pellegrini da tutto il territorio. Prevedevano lunghe preparazioni spirituali, la sosta presso la Chiesa madre e la processione delle statue di tutti i santi titolari delle 13 parrocchie di Agnone. Con la prima festa di Primavera, il 13 di maggio, insieme al Santo si festeggiava la “bella Stagione” e si implorava una benedizione corale sul raccolto esattamente come, millenni prima( e lo troviamo inciso nel bronzo della Tavola Osca) si invocava la benignità di tutte le divinità agresti venerate nelle terre dei Sanniti. La processione giungeva fino alla chiesa più remota, quella di Maiella, per consentire al santo celato sotto il rosso manto di Cristanziano, di salutare la statua di sua sorella, santa Scolastica, rimasta lì.

Fiere e feste popolari

Vi erano feste popolari e la “fiera grossa” col mercato dei grandi animali. E’ evidente una fede popolare tipica delle comunità agro-pastorali che assurge a Patrono del paese un Santo che ha potere sulle forze della natura, che protegge dai danni della grandine, dei fulmini e delle tempeste, oltre che delle umane discordie. Non è una caso che, dal medioevo ad oggi, identiche implorazioni ricorrono sulle figlie della stessa terra, le campane, cui è dato analogo potere divinatorio (fulgura frango, dissipo ventos, placo cruentos…).

Il talento di un’artista locale

Natura e fede si legano nuovamente al bronzo con la realizzazione di un progetto mirato a dotare la chiesa di S. Marco di un’opera d’ arte unica sul territorio e doverosa per onorare il suo Santo: un busto bronzeo che lo ritrae giovanile, con la barba, la mitra e gli attributi caratteristici. Per la realizzazione di questa scultura, nelle dimensioni naturali come per i classici busti seicenteschi, ci si è avvalsi del grande talento di un artista DOC che, nonostante la sua giovane età, non è più una promessa ma da tempo uno scultore esperto ed affermato che ha firmato molti monumenti collocati in luoghi molto prestigiosi, Ettore Marinelli. Nel campo dell’ arte egli è l’erede della dinastia dei fonditori Marinelli, famosi produttori di campane che radicano la loro storia già nel medioevo.

Il nuovo Comitato “Pro S. Cristanziano”

Da qualche anno un nuovo Comitato “Pro S. Cristanziano” si è attivato con fede e passione per riaccendere il culto che stava via- via scemando. Lo fa contribuendo alla sua conoscenza con la distribuzione nelle scuole di un fumetto che lo presenta ai giovanissimi, con la riorganizzazione dell’area degradata antistante la chiesa, con l’organizzazione di incontri ed il recupero di beni e anche attraverso la ripresa di una festa popolare. Così anche l’antico sogno del vecchio parroco, il defunto don Alessandro Di Sabato, e della vecchia Amministrazione Comunale guidata dall’ex sindaco Lorenzo Marcovecchio, ha visto la sua realizzazione. La sera della vigilia di S. Cristanziano, oggi 12 maggio, il vescovo della Diocesi, S.E. Claudio Palumbo, svelerà il busto del Santo che rimarrà sull’altare per la sua festa per essere ammirato e venerato da tutti i fedeli. A nome dei concittadini, come da tradizione, il sindaco della città Daniele Saia deporrà alla sua base, in segno di devozione, le chiavi di Agnone.
Per la realizzazione dell’opera si è provveduto ad una raccolta di denaro e di argento per la fusione del pastorale e della palma del martirio. Infatti tutto l’argento donato dai parrocchiani è stato fuso per crearne accessori bellissimi e preziosi, arricchiti dalla fede e dal sentimento dei devoti. Nei giorni della Festa la mitra in bronzo sarà ricoperta da quell’ autentica, finemente sbalzata in argento dai raffinatissimi orafi locali , facente parte dell’antico corredo del Santo. Ettore Marinelli ha impiegato circa un anno di lavoro, sempre attento al giudizio del parroco don Onofrio Di Lazzaro, perché consapevole di una responsabilità straordinaria, quella di idealizzare volto ed espressione del ”cittadino” più eminente di Agnone che non ha altra iconografia oltre a quella nascente. ​
La statua è stata interamente ideata, progettata, disegnata e plasmata in argilla dal noto artista molisano, rifinita in cera , fusa in bronzo con la tecnica millenaria della “cera persa”, infine accuratamente cesellata. Si è preferito riservare tutto l’argento raccolto per gli accessori fusi a pieno peso tralasciando l’iniziale progetto di bagnare interamente il busto perché la copertura vela i particolari e l’espressività del volto. Se è vero che la fede non ha bisogno di idoli è pur vero che da sempre l’arte ne è stato veicolo, l’ha espressa ed alimentata. Il sentimento religioso reso artisticamente è il segno più alto che l’uomo abbia mai lasciato sulla Terra.
Carola Pulvirenti

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‘Impara l’arte’ presenta Sara Petrella: la vita nella capanna dell’arte https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-sara-petrella-la-vita-nella-capanna-dellarte.html https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-sara-petrella-la-vita-nella-capanna-dellarte.html#respond Mon, 16 Nov 2015 07:27:22 +0000 https://www.cblive.it/?p=31470 Oggi è uno di quei giorni in cui esci di casa con la giacca pesante e poi ti accorgi che un sole inaspettato ti fa venir voglia di metterti leggero; oggi è uno di quei giorni in cui arrampicarsi lungo le scalinate del centro storico di Campobasso è più che mai un piacere sotto l'azzurro, soprattutto perché sto per incontrare una giovane donna che si racconterà attraverso la passione, l'arte, i sogni: Sara Petrella.

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Sergio Marchetta con Sara Petrella
Sergio Marchetta con Sara Petrella

SERGIO MARCHETTA

Oggi è uno di quei giorni in cui esci di casa con la giacca pesante e poi ti accorgi che un sole inaspettato ti fa venir voglia di metterti leggero; oggi è uno di quei giorni in cui arrampicarsi lungo le scalinate del centro storico di Campobasso è più che mai un piacere sotto l’azzurro, soprattutto perché sto per incontrare una giovane donna che si racconterà attraverso la passione, l’arte, i sogni: Sara Petrella.

Come si definisce Sara? Pittrice, violinista, attrice? “Sono una ragazza con tanta voglia di esprimermi attraverso il talento che ho coltivato nel corso degli anni: la pittura, il disegno, la musica. Nonostante alcune scelte e situazioni mi abbiano parzialmente allontanata dal percorso che avrei voluto intraprendere. Subito dopo la Laurea ho intenzione di iscrivermi all’Accademia di Belle Arti per riuscire finalmente a tirare fuori tutte le mie capacità artistiche per poterle esprimere fino in fondo”.

Quando crei la tua arte ti senti sempre ispirata oppure l’estemporaneità può giocare un ruolo importante? “L’arte può essere un bisogno impellente come anche necessità di progettare. Non esiste una regola”.

Tu non ti identifichi solo con la pittura; infatti negli ultimi anni ti sei accostata anche al teatro, in particolare al musical. Il mio avvicinamento al teatro è stato in qualità di assistente alla scenografia al fianco di Lara Carissimi fino a quando – per una serie di eventi –  mi sono ritrovata sul palcoscenico in un ruolo del musical “La Bella e la Bestia” prodotto dall’Associazione Ouverture: sicuramente un impatto forte ma assolutamente adrenalinico e divertente. In seguito ho preso parte come comparsa nello spettacolo teatrale “Fonzo e Delicata” e al teaser de “La leggenda di Delicata Civerra”.

L’arte nasce “da dentro” o è frutto di insegnamento? “La passione per il disegno e la musica sono state sempre parte di me. Certo, si possono avere doti innate ma il livello artistico nella musica è il risultato di studio e formazione. Per quanto riguarda il disegno, invece, penso che sia un pò differente: il punto di partenza è una manualità assolutamente innata. Tuttavia, in entrambi i casi, la tecnica è imprescindibile”.

Quando lavori su commissione ti senti limitata nell’esprimerti? “Assolutamente no. Anche in quel caso esercito la mia inventiva personale, il mio gusto, la mia libertà artistica che rende riconoscibile la mia mano già dall’utilizzo dei colori”.

Quanto sei curiosa? “Molto. Di conoscere, di crescere”.

Sogni mai ad occhi aperti? “Sempre con aspettative diverse e senza cedere a false illusioni. Il mio sogno oggi è iscrivermi in Accademia e formarmi nel disegno. Scegliere di essere artisti appare come una decisione lontana dal mondo del lavoro in senso stretto e questo rende tutto ancora più difficile”.

Qual è il segreto che rende l’arte un mezzo di comunicazione? “Trasmettere emozioni, colori, suoni. Provare ad arrivare alla mente e al cuore per restare nei ricordi”.

Che valore ha l’applauso del pubblico? “Uno spettatore che applaude è una persona a cui l’artista ha dato ciò che egli cercava”.

Ti sei lasciata coinvolgere in diverse iniziative legate alla tua terra, alle tradizioni, alla storia popolare: quanto sei legata alle tue origini? “Questa terra è il mio cuore, il territorio delle mie ispirazioni, la mia storia. Uno dei motivi per cui ho rinunciato a qualche occasione subito dopo le suole superiori è stato proprio il legame smisurato per i miei luoghi. Probabilmente se dovessi scegliere adesso mi comporterei diversamente e sarei più audace”.

Quanto è importante viaggiare per un artista? “E’ importante per i colori: ogni posto ha colori diversi per i miei pennelli e per i miei ricordi. Il viaggio è crescita per lo spirito”.

Il genio artistico e la follia convivono sempre? “Beh, l’argomento delle devianze rispetto all’arte è proprio quello che sto trattando nella tesi a cui sto lavorando. L’artista generalmente è riconosciuto come colui che stravolge senza rispetto attraverso le idee. Molti veri artisti sono stati folli e dannati, innamorati della sola arte fino al sacrificio supremo. Io personalmente mi definisco un’artista ancora in fase di crescita e quindi non ancora una vera e propria folle”.

Dipingere un quadro significa creare un pezzo unico: quanto sei gelosa di ciò che realizzi? “Non sono gelosa delle mie creazioni. Mi dispiacerebbe di più se venissi derubata di un’idea”.

Sedia a dondolo o montagne russe? “Sedia a dondolo… simbolo di ispirazione”.

Archetto o pennello? “Pennello. La musica per me è arrivata dopo il disegno anche se le due passioni convivono”.

Soffitta o cantina? “Soffitta. E’ lì che sto dipingendo adesso”.

Amore o psiche? Cosa ti auguri per i prossimi dieci anni? “Coltivare il mio estro, produrre, esporre le mie creazioni. Mi vedo comunque nella capanna dell’arte”.

Le campane rintoccano, è mezzogiorno e la nostra chiacchierata all’ombra della Torre Terzano si chiude con il sorriso che solo chi vive di passione e di creatività riesce a comunicare. L’incontro con Sara Petrella è stata un’occasione di semplice profondità, di elegante volontà e soprattutto di pulsante necessità di ricerca: una ricerca che parte dall’anima per raggiungere l’unica grande meta del bello attraverso l’arte. Grazie, Sara.

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‘Impara l’arte’ presenta Jada e Valentina: due obiettivi per un’unica passione https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-jada-e-valentina-due-obiettivi-per-ununica-passione.html https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-jada-e-valentina-due-obiettivi-per-ununica-passione.html#respond Fri, 30 Oct 2015 12:13:08 +0000 https://www.cblive.it/?p=30774 Il viaggio lungo le strade dell'arte, di Sergio Marchetta per CBlive, giunge oggi a una tappa fatta di immagini e fantasia, per presentare due ragazze poco più che ventenni, ma dotate di una tenacia e una chiarezza di intenti che stupisce al primo impatto. Si tratta di Jada Bisonni e Valentina Fusiello: due donne molto diverse; eppure è tangibile la profonda intesa che le lega.

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Jada e Valentina durante l’intervista

SERGIO MARCHETTA

Il viaggio lungo le strade dell’arte oggi giunge a una tappa fatta di immagini e fantasia: incontro due ragazze poco più che ventenni ma dotate di una tenacia e una chiarezza di intenti che stupisce al primo impatto. Al tavolo di questo locale di Oratino che ospita la loro prima mostra ci sono Jada Bisonni e Valentina Fusiello: due donne molto diverse, sia nella loro manifestazione estetica che nel temperamento; eppure è tangibile la profonda intesa che le lega. La loro comune passione per l’arte di fotografare le unisce fino a trascendere le affinità professionali per arrivare a un’amicizia solidissima anche se ancora giovane. Riservo a Jada le mie prime domande.

Il tuo motto è “fotografare è una buona ragione per svegliarmi ogni mattina”. Quanto si mescolano in te vita e fotografia?
“Fino a diventare una cosa sola, fin da quando ero molto piccola. Ho iniziato a ‘corteggiare’ la macchina fotografica da bambina e ricordo che chiedevo a mia madre un rullino nuovo per ogni gita scolastica. La sorpresa da parte sua quando sviluppavamo la pellicola era di vedermi fotografata in pochissime occasioni: già da allora mi sentivo più a mio agio nello scattare piuttosto che nel mettermi in posa. Diciamo che ho iniziato ben presto a coltivare la mia inclinazione, seppur inconsapevolmente. Poi, circa cinque anni fa, mi sono resa conto di questa vera e propria vocazione artistica introducendomi seriamente nel mondo della fotografia”.

Passione e vocazione sono un’esigenza molto legata alla tecnica e allo studio?
“Certo. I sentimenti e le emozioni devono avvalersi sempre della curiosità e della conoscenza delle attrezzature che si utilizzano. Tutto sempre con il giusto equilibrio”.

Prima di scattare una foto c’è sempre una fase riflessiva, ispiratrice oppure anche l’improvvisazione può risultare efficace?
“Anche se ti capita di avere a disposizione solo due secondi per scattare una foto inevitabilmente ti viene in mente il modo in cui la vorresti realizzare. C’è sempre l’osservazione alla base di uno scatto”.

Esiste la foto brutta?
“Sì, esiste. Anche se magari tecnicamente valida”.

In cosa trovi ispirazione?
“In me stessa, nel presente, guardando lavori di altri artisti. In questo ordine”.

La fotografia ha il grande pregio di conservare il passato attraverso le immagini. Che valore ha per te il ricordo?
“Io scatto fotografie anche perché purtroppo non ho un’ottima memoria. Questa passione mi aiuta anche a non dimenticare”.

Cosa preferisci fotografare?
“Ho iniziato dai paesaggi per appassionarmi anche ai ritratti dopo essermi avvicinata all’utilizzo della Reflex. Ultimamente invece, dopo aver attraversato una fase compositiva fotografando oggetti, soprattutto esaltando l’abbinamento fiori e acqua, sono arrivata a concepire l’idea del progetto che ha ispirato la mostra attualmente allestita: integrare il paesaggio e il ritratto mediante una serie di scatti progressivi”.

Oggi i mezzi tecnologici e mediatici, soprattutto i social network, ci consentono di esprimerci in maniera immediata e diretta attraverso le foto. Secondo te mettere la fotografia a disposizione di tutti è un bene o un male?
“E’ un bene nella misura in cui ci sia sempre un presupposto di osservazione se non di studio della fotografia stessa; non è un male cercare di riprodurre un’immagine ma occorre sempre sforzarsi di comprendere come si arriva a scattare una buona foto”.

Quali caratteristiche sono essenziali per un buon fotografo?
“La conoscenza della tecnica, il saper cogliere i dettagli e il saper mettere lo studio a servizio della passione”.

Qual è il senso del fotoritocco?
“Io credo molto nella post produzione ma sempre con rispetto dei limiti che preservano la naturalezza della foto, compresi i difetti oggettivi che possono essere presenti. Il fotoritocco a me serve per personalizzare ma non per truccare uno scatto”.

Si può ricercare la perfezione attraverso la fotografia?
“Si può arrivare alla foto tecnicamente perfetta. Questo sì”.

Ti senti a tuo agio anche di fronte all’obiettivo?
“Mi piace tanto fotografarmi anche se non si tratta dei cosiddetti selfie, bensì di scatti che utilizzo per sperimentare, per crescere o semplicemente per ovviare all’assenza immediata di una modella quando arriva l’attimo di ispirazione”.

Lasceresti la tua terra d’origine per seguire la tua passione?
“Indubbiamente, anche se emotivamente mi costerebbe molto”.

A questo punto cedo la parola a Valentina, l’altra metà di questo connubio artistico.

Il vostro incontro da cosa nasce?
“Ci siamo conosciute attraverso Facebook. Ho iniziato a seguire la pagina di Jada e a notare le sue foto. Le ho proposto di scattarle delle immagini, ci siamo incontrate ed è stato un vero e proprio colpo di fulmine artistico a partire da passioni e idee comuni che poi sono diventate condivisione e assiduità sfociate nel progetto che rappresentiamo attraverso la nostra mostra”.

Dopo quanto tempo dal vostro incontro è nato questo progetto?
“Lo scorso febbraio ci siamo incontrate e ad aprile c’era già la bozza del progetto comune. L’idea di fondo è di Jada e si riconduce alla sua passione per tutto ciò che si lega al vintage. La soddisfazione più grande oltre l’idea è stata poi riuscire a concretizzare tutto in autonomia: un traguardo inspiegabile ma frutto di ore e ore di pensieri, lavoro, prove, ricerca”.

Cosa avete provato il giorno dell’inaugurazione della mostra?
“Abbiamo rischiato di svenire. Tremavamo e ci stringevamo le mani. Una sorta di matrimonio in cui andavamo a sposarci con la nostra passione.Una grande prova per noi stesse, per le nostre emozioni, per la cura dei dettagli”.

Come avete gestito la tempistica nell’organizzare l’evento?
“Dopo una prima fase di studio e di immaginazione ci siamo mobilitate per realizzare tecnicamente le immagini, reperire la modella, i costumi, l’oggettistica e le tante persone che ci hanno aiutato. A metà luglio le foto erano pronte e quindi siamo passate alla fase di selezione degli scatti e di allestimento vero e proprio”.

Avete un modo di lavorare simile o vi compensate?
“Dipende dagli aspetti. Io personalmente provengo dalla pittura per cui cerco di portare nella fotografia, soprattutto se si tratta di paesaggi, la mia esperienza con i colori fino a provare di assimilare l’immagine ad un quadro. In ogni caso, al di là di eventuali differenze stilistiche, abbiamo la massima intesa”.

Il fotografo è un curioso?
“Tanto. Un curioso nella ricerca di ciò che può colpire, nel provare a immedesimarsi nello sguardo di chi ammirerà la fotografia”.

Quanta difficoltà incontra un giovane che vuole fare della fotografia il proprio lavoro?
“L’arte è sempre qualcosa di difficile comprensione in questo senso; e può esserlo anche da parte di chi ti è vicino nella vita di tutti i giorni. Non è facile spiegare le lacrime di emozione che arrivano di fronte alla prima Reflex che si tiene tra le mani”.

Quanto conta il silenzio prima di uno scatto fotografico?
“Più che il silenzio è fondamentale la meditazione. E tanto lo è l’attesa prima del sentirsi pronti a lasciarsi andare a fotografare. Allo stesso modo di come accade nella pittura”.

Cosa rappresenta per te il sogno in quanto fotografa e in quanto donna?
“Il sogno è tutto; aiuta a creare contenuti: lottando per realizzare il tuo sogno mostri ciò che desideri, al di là di ciò che si vede. Quando fotografi le stelle non tutte sono visibili a occhio nudo; eppure l’obiettivo le riesce a cogliere completamente: un ideale astratto e meraviglioso proprio come lo sono i sogni”.

Parole immediate quelle delle due giovani fotografe, parole profonde come i loro desideri e luminose come un flash nel buio. Niente può rallentare l’arte quando le ambizioni si reggono sulla passione. L’obiettivo di Jada è come una sentinella che attende pazientemente l’alba da immortalare e quello di Valentina punta sempre verso le stelle più alte e la Luna: luci e colori che continueranno a fondersi in un lungo cammino che ammireremo sempre con il sorriso.

 

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‘Impara l’arte’ presenta i Misthaven: l’alternativa che suona passione https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-i-misthaven-lalternativa-che-suona-passione.html https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-i-misthaven-lalternativa-che-suona-passione.html#respond Fri, 23 Oct 2015 07:56:42 +0000 https://www.cblive.it/?p=30511 Tre sono gli ingredienti di cui è impastato il senso dell'intervista di oggi: l'energia della gioventù, l'eleganza intellettuale e la passione per la musica. Ingredienti di prima scelta che si riassumono nell'equilibrio perfetto di un nome: Misthaven. Una di quelle concretizzazioni artistiche più coraggiose e raffinate di cui il Molise possa andare orgoglioso. A raccontarle ancora una volta, per la rubrica Impara l'arte di CBlive, Sergio Marchetta.

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Un momento dell’intervista

SERGIO MARCHETTA

Tre sono gli ingredienti di cui è impastato il senso dell’intervista di oggi: l’energia della gioventù, l’eleganza intellettuale e la passione per la musica. Ingredienti di prima scelta che si riassumono nell’equilibrio perfetto di un nome: Misthaven. Una di quelle concretizzazioni artistiche più coraggiose e raffinate di cui il Molise possa andare orgoglioso. Nell’epoca dei talent show e delle cover band per me è un onore tenere a battesimo su questa rubrica un gruppo che farà parlare si sé. Di fronte a me la rappresentanza femminile della band: Eleonora Petti (pianoforte e tastiere) e Francesca Bertoni (voce e autrice).

La prima domanda, scontata ma non troppo: da cosa deriva il nome della vostra band e che missione ha?
E. “Il nostro gruppo si chiama così dall’unione di due parole che significano “rifugio nella nebbia” inteso come rapporto dell’individuo con la musica; riassume l’espressione più rappresentativa del nostro lavoro e della nostra passione. La nebbia come simbolo del caos e la musica come rifugio e come volontà di affrontare i problemi”.

Eleonora, tu rappresenti la parte un pò più onirica dal punto di vista della musicalità del gruppo quando ti esprimi alle tastiere e al pianoforte.
“Le tastiere rappresentano più che altro la parte “classica” dei nostri suoni, l’influenza della formazione e dello studio che emerge nelle nostre composizioni. A un primo impatto potrebbe sembrare poco assimilabile quello che suoniamo alle sonorità classiche. Ma se pensiamo che tutta la musica deriva dalla classica appare meno ‘strano’ riscontrare elementi del genere nel nostro repertorio; la formazione di ciascuno di noi rappresenta le fondamenta da cui non possiamo prescindere”.

Se volessimo definire il vostro stile espressivo senza inquadrarlo in schemi concettuali troppo restrittivi come lo descriveremmo?
E. “Come un genere ‘alternative’ inteso all’americana, in cui abbiamo delle chitarre e quindi delle ritmiche provenienti dall’hard rock, una voce che arriva dal pop e delle orchestrazioni di influenza tipicamente classica.Un misto di espressività musicali che riesce ad amalgamarsi molto bene”.

Questo affermarsi come genere “alternativo” e dunque poco commerciale è penalizzante o appagante?
E. “Potremmo definirla una sfida penalizzante. Il nostro è un genere poco apprezzato se non addiruttura sconosciuto in Italia, soprattutto al sud. Al contrario di altri Paesi come la Grecia o alcune piccole realtà europee. Il massimo dei consensi in ogni caso arriva da oltreoceano”.

Il vostro oltre ad essere un genere musicale è anche uno stile di vita?
F. “Decisamente. Non potremmo appassionarci a qualcosa che non rispecchierebbe noi stessi. Ma questo non significa lasciarsi etichettare”.

La scelta di scrivere i testi in inglese rappresenta una necessità o una comodità?
F. “Personalmente ritengo che quella inglese sia una lingua più poetica rispetto all’italiano ed è quella con la quale riesco ad esprimermi al meglio nei testi. Naturalmente si tratta di una scelta che risulta più adeguata anche in termini di mercato in quanto l’inglese arriva ovunque”.

Quante volte avete pensato di fare i bagagli e portare la vostra idea musicale lontano da questi confini un pò angusti?
E. “Un sacco di volte! Ma è necessario non cedere all’impulsività e all’improvvisazione perchè risulterebbe controproducente. Stiamo creando le basi”.

Come giudicate il Molise dal punto di vista della considerazione rispetto al tipo di musica che proponete?
E. “Purtroppo sono ancora troppo pochi gli spazi “aperti” a questo genere musicale: ciò vuol dire scarse possibilità di esprimersi “live”, soprattutto se si tratta di gruppi di nuova formazione. E’ molto più redditizio dare spazio a una delle tante cover band anziché a un progetto come il nostro”.

Oggi è facile improvvisarsi musicisti anche grazie a certi fenomeni mediatici di dubbio valore. Questo quanto infastidisce chi ha alle spalle un duro percorso di studi?
E. “Si può essere degli ottimi musicisti anche senza avere un grosso background formativo; però bisogna anche distinguere il progetto che si vuole affrontare: se si vuole suonare per diletto e passione non serve una formazione accademica. Se invece si aspira a vivere di musica e farne un lavoro allora lo studio è imprescindibile”.

Francesca, per te che sei la voce e quindi l’espressione frontale della vostra musica, cosa rappresenta invece il silenzio?
“Adoro ascoltare il silenzio perchè in esso riesco ad ascoltare me stessa e a comprendere cose che il caos non sa nemmeno suggerire. Pur avendo una personalità “esplosiva” mi ritrovo paradossalmente nel silenzio”.

Quando invece hai un microfono davanti quanto è difficile per te ricercare l’equilibrio tra la passione e la tecnica del canto?
“Tanto, considerando che non ho mai studiato sistematicamente canto. Mi sono avvicinata all’educazione vocale a partire da altri progetti – teatrali soprattutto – per cui non devo molto alla tecnica in senso stretto. Ciò che mi spinge è la passione”.

Quanto è importante l’impatto visivo di un’esibizione live?
F. “Tanto, al punto da provare sempre ad emozionare il pubblico. Non necessariamente con effetti speciali o grosse sovrastrutture teatrali che rischierebbero di rendere un concerto una farsa. Bisognerebbe sempre prediligere la semplicità”.

Che significa ispirazione?
E. “Tirare fuori le esperienze. Niente nasce dal nulla; abbiamo dentro una base di sentimenti, emozioni e immagini che ci siamo creati nel tempo”.

Riesci a trovarmi un sinonimo di pianoforte?
E. “Vita. La mia vita. Perchè non ricordo cosa facessi o come fossi prima di iniziare a suonare”.

Che cos’è il fascino musicale?
E. “Il frutto della passione e la capacità di trasmettere bellezza”.

Quanto legge un’autrice di testi musicali? Quanto conta coltivare la lettura oltre a lasciarsi ispirare?
F. “Scrivere mi viene di getto. E’ emozione. E’ raccontare. Parto da me e arrivo al testo. La lettura può essere una provocazione ma l’inizio di un testo è sempre un racconto personale”.

Oltre a raccontare cosa fanno i testi dei Misthaven?
F. “Ricercano e coltivano la speranza”.

Cosa ti affascina di più: la fase creativa, compositiva o quella del riscontro oggettivo del pubblico?
F. “Lavorando insieme direi che la fase creativa è quella più divertente e stuzzicante. Ci piace confrontarci ma non litighiamo mai”.

Che cos’è il successo?
F. “Riuscire ad arrivare a tutti. Sentirsi ascoltati”.

Eleonora senza la musica sarebbe una persona migliore o peggiore?
“Non sarei me stessa”.

Il vostro genere musicale si avvale di testi “forti”  ed anche l’impatto visivo che accompagna la vostra espressione artistica non passa inosservato. Quanto pensate possa mettere in discussione tutto ciò rispetto a chi vi ascolta?
E. “In una piccola realtà fenomeni del genere sono guardati con occhi “diversi”. Ma il nostro è un modo di essere, la nostra immagine non è una moda”.

Il nero è una tonalità che vi contraddistingue: esigenza o casualità?
E. “Stile di vita. La passione per un colore”.

L’amore, i sogni o la carriera: che cosa conviene inseguire?
E. “La carriera. C’è una famosa frase che dice: La carriera non si alzerà mai dal letto una mattina dicendoti che non ti ama più”.
F. “Probabilmente tutte e tre”.

4 marzo 2015: cosa rappresenta questa data per i Misthaven?
E. “L’uscita del nostro primo Demo. Un periodo di grande emozione e concretezza rispetto al lavoro dei mesi precedenti. Un bellissimo ricordo”.

Quanto andate d’accordo, artisticamente parlando?
F. “Fondamentalmente non ci siamo incontrate come colleghe; siamo amiche da sempre e ci siamo conosciute proprio nell’ambito della musica. Siamo legate oltre la musica e questo ci porta a sostenerci a vicenda”.
E. “Il gruppo è una grande famiglia. Il lavoro condiviso e anche le ansie condivise formano il collante. La musica stessa è esigenza di fare gruppo”.

L’inquietudine è un bene o un male?
F. “Una fonte di ispirazione”.

“Non è mai troppo tardi per trovarti al posto giusto. Non è mai troppo presto per lasciare tutto alle spalle”. Che cos’è il tempo?
E. “Il tempo è solo un numero. Non esiste nulla di concreto che si possa definire un ‘troppo tardi’ o un ‘troppo presto’. Il tempo è una dimensione inventata per delimitare le esperienze e definire ciò che è giusto o sbagliato”.

Nelle vostre liriche compaiono spesso passaggi legati al piacere e al dolore: quanto si assomigliano?
F. “Viaggiano sulla stessa scia. Due facce di una stessa medaglia”.

Quali sono i vostri progetti a breve e a medio termine?
E. “Emergere ma soprattutto suonare dal vivo qui nel Molise e lontano da qui. Una grande passione è sempre una buona motivazione per andare avanti”.

Nulla da aggiungere, verrebbe da dire. Allora in bocca al lupo ai Misthaven, alle loro idee, ai loro suoni, alla loro forza e al talento che saprà raggiungere le altezze che merita.

 

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‘Impara l’arte’ presenta Giada Primiano: la passione in punta di piedi https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-giada-primiano-la-passione-in-punta-di-piedi.html https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-giada-primiano-la-passione-in-punta-di-piedi.html#respond Fri, 16 Oct 2015 07:26:00 +0000 https://www.cblive.it/?p=30203 Avere di fronte una danzatrice equivale per definizione a trovarsi al cospetto di qualità come la grazia e l'eleganza. Incontrare Giada Primiano è tutto questo ma a completare il quadro si aggiunge un colore tanto virtuoso quanto importante: la semplicità. Quella intesa come immediatezza delle emozioni, trasparenza delle parole e genuinità dei gesti.

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ImmagineSERGIO MARCHETTA

Avere di fronte una danzatrice equivale per definizione a trovarsi al cospetto di qualità come la grazia e l’eleganza. Incontrare Giada Primiano è tutto questo ma a completare il quadro si aggiunge un colore tanto virtuoso quanto importante: la semplicità. Quella intesa come immediatezza delle emozioni, trasparenza delle parole e genuinità dei gesti. Scongiurata la pioggia che ha attentato alla nostra chiacchierata inizio a conoscere questa giovanissima artista dagli occhi esclamativi.

Giada, tu sei una di quelle anime coraggiose che ha deciso di intraprendere il “viaggio” che porta lontano dalle origini geografiche in nome della passione per l’arte e in particolare per la danza.
“Mi sono trasferita a Roma a soli quindici anni e lo scorso giugno ho completato gli studi in Accademia Nazionale di Danza; è stato un percorso di audacia ma soprattutto dettata dalla passione e dal desiderio”.

Per te la danza è stata una “scelta” o un “sentirsi prescelta”?
“Mi sono avvicinata alla danza da molto piccola; avevo cinque anni quando, guardando un saggio in televisione, iniziai a ballare davanti allo schermo. Mia sorella maggiore era lì a spiarmi e mise la pulce nell’orecchio di nostra madre. Giunse così la decisione di farmi studiare danza. Da lì è stato una sorta di gioco che è andato sviluppandosi forse anche inconsapevolmente da parte mia, almeno all’inizio. Ma il gioco poi mi ha fatto scoprire la passione e si è trasformato in una scelta di vita. Oggi senza danza io non mi immaginerei”.

Quanto equilibrio deve esserci tra passione, consapevolezza e progettualità?
“Deve esserci soprattutto razionalità: io amo sognare e fantasticare ma guardo in faccia la realtà. Come nella vita anche in arte se di fronte a una resa dei conti, di fronte a una prova ci si rende conto di una certa inadeguatezza bisogna avere la lucidità di cambiare strada. Personalmente io sono ancora nella fase della scoperta e del coraggio”.

Il tuo cammino artistico è partito da un’intuizione di tua sorella. Quanto ti ha appoggiato la famiglia nel corso di questi anni di formazione?
“Ho al mio fianco dei genitori intelligenti che mi hanno sostenuto psicologicamente, materialmente e fisicamente; e tutto questo mi ha stimolato a dare risultati sempre positivi. Ovviamente è difficile da parte di un genitore vedere partire una ragazzina di quindici anni da sola. Eppure loro si sono sempre fidati di me e della mia determinazione; devo tutto a loro e tanto a me stessa per aver lottato per finalizzare i miei sacrifici”.

Frequentare l’Accademia Nazionale ti ha privato in qualche modo di alcune cose “normali” tipiche dell’adolescenza?
“Ho sacrificato tanto e paradossalmente mi mancavano le cose più banali: stendermi sul divano dopo pranzo, guardare un programma alla Tv, fare una passeggiata con un amico. In particolare i primi anni sono stati difficilissimi in quanto provenivo da una scuola privata di provincia ed ero circondata da altri ragazzi più preparati di me. Gli anni e la tenacia mi hanno portato ai risultati che ho ottenuto. Eppure non cambierei niente se dovessi tornare indietro perché sono stati tutti sacrifici che volevo fare e quindi sacrifici benedetti. La mia voglia di sudare per la danza è stata sempre molto più forte di quella di prendere un aperitivo in compagnia al bar”.

Che cos’è la disciplina?
“La disciplina serve a educare il corpo, l’esercizio e la mente. Senza lasciare nulla al caso e senza mai rimandare lo sforzo e la determinazione. Ma la disciplina è anche il rispetto nei confronti dell’insegnante, delle colleghe e dell’ambiente. La danza è una forma d’arte che forse risente un pò dell’impostazione “arcaica”; però a volte “abbassare la testa”, porgere l’inchino al maestro serve a ricordarsi che c’è qualcuno migliore di te”.

Quanto ti ha cambiata la danza?
“La danza è nata con la mia ragione e quindi ha fatto sempre parte di me. Tanto mi ha cambiata il trasferimento, perché ho conosciuto un altro ambiente, un altro tipo di disciplina e di vedere il mondo che mi ha emozionato: è fondamentale l’approccio alle scelte della vita e all’arte”.

Hai mai pianto per la danza?
“Tantisime volte. Non ho mai pianto per i rimproveri in sala, forse per orgoglio; poi a casa, magari al telefono con mia madre, mi sfogavo in lacrime. E tante volte ho avuto gli occhi lucidi di fronte a un complimento”.

Esprimersi nella danza vuol dire avvalersi soprattutto della propria corporeità senza far uso della parola: questo è un limite secondo te rispetto ad altre forme d’arte?
“Ho avuto la fortuna di approcciarmi anche al teatro per cui so bene quanto sia diretta la parola: ad essa puoi dare una forma e un’intonazione che le consente di arrivare al pubblico in maniera istantanea. Il linguaggio teatrale, sia narrativo che concettuale, è univoco. La danza, invece, è più soggettiva, interpretabile e meno diretta per cui ogni spettatore può cogliere emozioni e messaggi differenti”.

Cosa rappresenta il pubblico per te?
“Io amo il palcoscenico. La platea buia che piano piano si illumina fino a lasciar distinguere i visi degli spettatori mi trasmette una sensazione indescrivibile, energia e voglia di comunicare. Il pubblico è amico mio, altrimenti io non esisterei in quanto artista”.

Hai mai pensato a te stessa nei panni dell’insegnante?
“Mi piacerebbe insegnare ma non ora. L’insegnante è per l’allievo un mentore e a me serve ancora fare tanta esperienza per arricchirmi prima di riuscire a trasmettere”.

Basta il talento per essere artisti?
“Se non ci sono tenacia, determinazione e un carattere pregnante non arrivano i risultati; anche se possiedi talento e doti fisiche perfette”.

Che cos’è il successo per te?
“Io danzo perchè mi fa stare bene e mi fa sentire me stessa. Meglio un fallimento che un rimpianto. Quindi non ho ancora voglia di pensare al successo. Il successo può essere improvviso o graduale ma comunque rischioso. E poi il successo nel mondo della danza è sempre limitato, marginale, ha un’altra dimensione quasi elitaria”.

Potrebbe essere opportuno avvicinare i bambini alla danza nell’ambito della formazione scolastica?
“Secondo me sarebbe più necessario educare al corpo, al rispetto della fisicità. Muoversi e ballare è sempre un piacere ma la danza classica è una scelta seria”.

Il corpo è lo strumento della danza: un fisico che invecchia cosa rappresenta per una ballerina?
“Una ballerina segnata dal tempo non avrà la stessa leggiadria della gioventù, ma magari un solo gesto di mano può diventare poesia. Nella danza l’addio alle scene è intorno ai quarant’anni eppure la Fracci, per esempio, ha conservato a lungo la capacità di emozionare il pubblico anche soltanto attraverso una “camminata” sul palco”.

La tua è una disciplina selettiva, anche dal punto di vista della fisicità. Quanto è alto il rischio di cadere in disordini di tipo alimentare per ottenere prestazioni migliori? E’ ancora un tabù parlare dell’anoressia nell’ambito della danza?
“E’ un problema reale che dipende molto dagli insegnanti ma anche dal tipo di personalità dell’allieva. Io ho avuto la fortuna di sdrammatizzare certi messaggi e di non cascarci”.

Nel tuo corso di studi ti sei avvicinata anche alla musica, soprattutto dal punto di vista storiografico: cosa rappresenta il suono per la danza?
“L’anima. La completezza”.

Quanto sogni?
“Tantissimo! Ho avuto un approccio sempre razionale e ponderato nei confronti della danza ma so bene che il sogno è il sale della vita. E poi è gratis”.

Conoscere Giada Primiano è stato un bel viaggio che si è avviato e concluso all’insegna di quella tenera umiltà di chi sa di dover faticare ancora a lungo ma con la lucida consapevolezza delle proprie meravigliose forze. Le forze di una ventenne che, come lei stessa dice, ha capito che nella vita nulla è scontato, soprattutto la felicità.

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‘Impara l’arte’ presenta Chiara Albanese: scrivere e sorridere per cambiare il mondo https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-chiara-albanese-scrivere-e-sorridere-per-cambiare-il-mondo.html https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-chiara-albanese-scrivere-e-sorridere-per-cambiare-il-mondo.html#respond Fri, 09 Oct 2015 06:49:36 +0000 https://www.cblive.it/?p=29868 Un incontro semplice ma emotivamente prezioso con Chiara Albanese, una giovane scrittrice di Agnone. La prima impressione che questa ragazza dai lunghi capelli scuri trasmette corrisponde a una sensazione di serenità e pacatezza, a partire dal tono della voce fino alla gestualità delicata ma espressiva. Chiara scrive, ama la vita e soprattutto è pervasa dal desiderio di comunicare la bellezza di esistere per aiutare il prossimo.

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Sergio Marchetta e Chiara Albanese
Sergio Marchetta e Chiara Albanese

SERGIO MARCHETTA

Vi racconto dell’incontro semplice ma emotivamente prezioso che ho avuto con Chiara Albanese, una giovane scrittrice di Agnone. La prima impressione che questa ragazza dai lunghi capelli scuri trasmette corrisponde a una sensazione di serenità e pacatezza, a partire dal tono della voce fino alla gestualità delicata ma espressiva. Chiara scrive, ama la vita e soprattutto è pervasa dal desiderio di comunicare la bellezza di esistere per aiutare il prossimo.

Che significato ha per te la scrittura? “Per me scrivere vuol dire provare a cambiare me stessa e ciò che mi vive intorno, un modo di aprirmi utilizzando penna e foglio”.

Tuttavia la spinta emotiva che ti ha indotto a scrivere è stata un episodio particolare della tua vita. “In realtà ho iniziato a mettere nero su bianco da quando ero solo una bambina. Poi un giorno di nove anni fa ho vissuto la tristezza di perdere mio fratello Giuseppe: una morte che non meritava di passare inosservata. Da qui la spinta ad intraprendere un progetto editoriale dedicato a lui ma soprattutto agli altri”.

Un modo di vivere ma soprattutto di affrontare un evento così tragico? “Sì, scrivere è stato il mezzo più immediato per fronteggiare la scomparsa di Giuseppe. L’ho fatto in maniera dettagliata, a tratti con crudezza ma sempre con l’idea di trasmettere emozioni e messaggi di vita al di là del dolore”.

Qual è quindi il senso del tuo libro? “Mio fratello ha perso la vita a causa della droga. Dunque il messaggio di cui è permeata ogni mia singola pagina è l’esaltazione della vita nella sua bellezza e nel suo valore inestimabile. Il libro è un pretesto per avvicinare i giovani e parlare loro di questa tematica, testimoniare la mia esperienza e quella della mia famiglia”.

Quanto ti ha aiutato il fatto di scrivere per affrontare questo evento senza cedere alla disperazione ma anzi traendone speranza per te e per gli altri? “Moltissimo. E leggere l’emozione negli occhi delle persone quando ho portato la mia testimonianza nelle scuole e nelle piazze è stata la conferma più genuina del mio progetto”.

Cosa spinge un giovane ad avvicinarsi alle droghe? “L’idea di poter costruire un’illusione, di sentirsi più coraggioso e forte in un mondo costruito su misura all’occorrenza”.

Il tuo libro ha raggiunto centinaia di persone e di cuori. Hai avuto il riscontro reale rispetto al messaggio che proponi attraverso le tue pagine? “Sì, soprattutto lontano dalla zona in cui vivo. E’ successo che la mia sfida editoriale si rivelasse l’incipit di un percorso molto più articolato di riscatto dalla droga e questa per me è la più grande soddisfazione: i tossicodipendenti non vanno mai allontanati”.

Oltre alla scrittura uno dei tuoi pilastri vitali è il volontariato. “Sì, ad esempio il ricavato dalla vendita del mio libro è stato donato per un progetto in Africa, luogo molto caro anche ai sogni di mio fratello. Nel 2013 sono stata personalmente lì un mese e ho seguito la destinazione della mia offerta nella missione. Tra l’altro tornerò a breve in Camerun con un nuovo progetto legato alla mia attività di clownterapia. Tutti dovrebbero visitare l’Africa per acquisire forza di volontà e desiderio di migliorare”.

A che punto sei oggi in qualità di scrittrice? “Ho due libri in cantiere: uno in forma di diario nel quale ripercorro alcune tappe importanti del mio vissuto e l’altro invece ispirato alla mia permanenza in Africa; e anche questi saranno progetti che trasformerò in occasioni di beneficenza”.

Cosa sogna Chiara? “Ho tanti sogni e molti ne ho già realizzati. Quello più grande è poter costruire una famiglia in cui condividere i miei ideali e i progetti che ho nel cuore”.

“Siamo buoni a nulla ma capaci di tutto”: mi commenti questa frase a te cara? “Vorrei essere capace di cambiare un pezzettino di mondo, di regole ingiuste ma soprattutto fare tutto il possibile per poter salvare i giovani dalla droga. Nessuno merita di perdere la vita per una causa così stupida. E lo farò sempre attraverso la mia scrittura, le mie parole, la mia missione”.

Questa è Chiara: una ragazza generosa, una promessa di sane speranze e una penna talentuosa. Basta davvero poco a conservare saldo il sorriso quando si ha la capacità di riscattarsi dal dolore per trasformarlo in esempio e voglia di vivere attraverso la creatività. Forse il modo migliore di imparare l’arte di vivere.

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‘Impara l’arte’ presenta Denise Lorella Narducci: vivere l’essenziale https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-denise-lorella-narducci-vivere-lessenziale.html https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-denise-lorella-narducci-vivere-lessenziale.html#respond Fri, 02 Oct 2015 07:32:28 +0000 https://www.cblive.it/?p=29549 Per la rubrica di Sergio Marchetta, CBlive scopre un altro giovane talento molisano: Denise Lorella Narducci. Una ragazza che vive di passione per la scrittura, per la musica e soprattutto per la vita. A distanza di poco tempo dalla pubblicazione della sua opera prima, l'autrice si svela in questa intervista.

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Denise Lorella Narducci intervistata da Sergio Marchetta

SERGIO MARCHETTA
Oggi sono di nuovo ad Isernia per incontrare un altro giovane talento. Sotto il sole di fine estate incontro Denise Lorella Narducci, una ragazza che vive di passione per la scrittura, per la musica e soprattutto per la vita. A distanza di poco tempo dalla pubblicazione della sua opera prima iniziamo la nostra chiacchierata sorseggiando un coktail ideato ad hoc dal maestro Domenico Piccoli. Il libro che Denise sta promuovendo s’intitola ‘L’essenziale’; e proprio a partire dal titolo di questo saggio ha inizio la mia intervista.

Qual è la tua essenza in quanto donna e in quanto scrittrice?
“Sono una donna fatta di emozioni, desiderio e istinto come qualunque creatura. E come tutti mi ritengo indefinibile e in continuo mutamento”.

I pilastri della tua vena creativa sono la scrittura e la musica; quanta musicalità c’è nelle tue parole quando scrivi?
“Scrivo sempre con un sottofondo musicale capace di ispirarmi ma posso passare senza accorgermene dai Pink Floyd ai Massive Attack a seconda del mio stato d’animo”.

Com’è iniziato il percorso che ti ha portato a diventare una scrittrice?
“Non ho cercato la scrittura perché essa è nata con me; l’esperienza e la fiducia in me stessa mi ha poi raffinata nello stile strada facendo. Dieci anni fa la mia espressione artistica prevalente prendeva corpo facendo la dj ma fin da allora mi capitava di tornare a casa dopo una serata con l’esigenza impellente di mettermi a scrivere”.

Il tuo libro è un saggio; ti capita di scrivere utilizzando anche altre forme di scrittura?
“Ho scritto molte poesie e ne scrivo ancora; tuttavia ho voluto pubblicare la parte più descrittiva e psicologica della mia produzione”.

Parliamone nel dettaglio: si tratta di un testo che può essere considerato qualcosa di più, un vero e proprio progetto.
“Certo, un progetto indirizzato a una relazione d’aiuto. In ciascuno dei cinque capitoli che compongono il libro provo a fornire una chiave al lettore, un aiuto alla comprensione delle tematiche in cui ho voluto approfondirmi. Un aiuto per viaggiare alla scoperta della propria essenza attraverso lo svelamento delle repressioni che abitano nella nostra esperienza personale”.

Perchè oggi si tende a reprimere la propria essenza, ciò che si è davvero? “Oggi il costruttivismo sociale dilaga e coinvolge la società in generale e di conseguenza anche i bisogni primari risultano mascherati, incompresi e annullano i benefici che potrebbero invece arrecare la coerenza e la semplicità”.

Una delle maschere che oggi si indossano vanno a influenzare la sfera dell’intimità e della sessualità. Anche di questo parli nel tuo libro.
“La mentalità del tabù è ancora imperante soprattutto nelle piccole realtà delle nostre periferie. Vivere la propria essenza significa anche poter esprimere nella libertà la sfera sessuale avendo il coraggio di non far coincidere necessariamente l’eterosessualità con la normalità”.

Come definiresti il concetto di intelligenza emotiva dal tuo punto di vista?
“Come la capacità di collegare mente e cuore in una gestione delle emozioni equilibrata e armonica. Non saper coltivare la propria intelligenza emotiva porta a vivere i rapporti e le esperienze interpersonali all’insegna dell’ansia e del timore perdendo di vista un dato fondamentale e cioè che non essendo fisicamente immortali non possiamo sforzarci di conferire il carattere dell’eternità alle nostre emozioni o situazioni sentimentali. Gustarsi l’attimo è un’ambizione positiva. Le emozioni non si scelgono”.

Gestire male le proprie emozioni è anche privarsi della libertà?
“Certo. Significa viversi per ciò che non si è davvero”.

Nel tuo libro parli anche dell’istinto: lo vedi come un limite o una risorsa per le emozioni?
“L’istinto rappresenta noi stessi e la guida per raggiungere la nostra essenza; è l’equilibrio tra emozione e desiderio. Alcune devianze, certe depravazioni per esempio possono nascere proprio dalla repressione degli istinti fondamentali”.

Un altro argomento che affronti è quello dell’erotismo. Come lo riassumeresti?
“L’erotismo rappresenta un concetto puro, artistico. Non si riconduce a un atto fisico in senso stretto bensì all’espressione della seduzione in tutte le sue forme”.

A te piace accostare il concetto di seduzione alle donne più che agli uomini. Come mai?
“Penso che la seduzione sia un aspetto innato particolarmente nel genere femminile anche se l’uomo può sedurre altrettanto. Tuttavia la donna per la sua stessa conformazione fisica è più predisposta alla seduzione. Riducendo ai minimi termini potremmo dire che per l’uomo la seduzione è un’arte più faticosa. Il fascino, poi, è quell’elemento fondamentale della seduzione che la rende potente al di là dell’aspetto fisico e corporeo”.

In effetti potremmo definire il tuo libro una vera e propria “guida” e uno strumento che hai inserito nel tuo impegno nel sociale. Ce ne parli?
“Il libro è strettamente correlato agli ideali e alle attività dell’associazione che ho fondato in difesa dei diritti delle categorie sessuali; una forma attiva di sostegno, orientamento e consulenza”.

Hai nuovi progetti creativi per il futuro?
“Sto lavorando a un romanzo che dovrebbe uscire a breve. Non aggiungo altro se non che avrà una forma travolgente”.

Come vedi proiettato il tuo “essenziale” nel futuro?
“Impegnato, soprattutto nell’educazione sessuale ed emotiva nelle scuole attraverso incontri o laboratori dedicati ai più piccoli. Sarà la mia battaglia personale”.

L’intervista si conclude ma il desiderio di approfondire gli argomenti appena accennati dalle parole di Denise spinge inevitabilmente al desiderio di accostarsi al libro. Conoscere questa giovane autrice molisana ha significato per me incontrare un’anima creativa motivata alla scoperta della vita nella sua pienezza, nella sua armonia e nel gusto di mostrarsi per ciò che si è profondamente. Concetti apparentemente scontati, ma che spesso si perdono di vista proprio per il timore di vivere ciascuno il proprio essenziale.

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‘Impara l’arte’ presenta William Mussini: la forza delle immagini https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-william-mussini-la-forza-delle-immagini.html https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-william-mussini-la-forza-delle-immagini.html#respond Tue, 15 Sep 2015 07:40:13 +0000 https://www.cblive.it/?p=28721 Più che un artista oggi incontriamo una persona; più che un'intervista vogliamo intraprendere un viaggio a partire dalla libertà intellettuale ed espressiva che trasmette la sua arte. Wiliam Mussini non è un regista alle prime armi e rappresenta uno stile indefinibile ma definito se lo si scopre attraverso i suoi lavori. Iintervistato da Sergio Marchetta per la rubrica Impara l'arte, Mussini si racconta a CBlive.

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Mussini intervistato da Marchetta

SERGIO MARCHETTA

Più che un artista oggi incontriamo una persona; più che un’intervista vogliamo intraprendere un viaggio a partire dalla libertà intellettuale ed espressiva che trasmette la sua arte. Wiliam Mussini non è un regista alle prime armi e rappresenta uno stile indefinibile ma definito se lo si scopre attraverso i suoi lavori; emana una creatività che trasferisce con versatilità dalla fase ideale a quella visiva. Sarebbe riduttivo dire che William si occupa di realizzare e produrre cortometraggi perchè invece siamo di fronte a una persona complessa (nel senso più creativo del termine), una di quelle persone con cui non è mai banale discorrere.

Quando ti trovi a dover creare un cortometraggio cosa conta di più: l’ispirazione o la curiosità?
“In assoluto l’ispirazione rappresenta la scintilla, l’innesco da cui parte ogni percorso creativo. E può arrivare in qualsiasi momento: guardando qualcosa che mi emoziona, ascoltando della musica che mi coinvolge particolarmente, conoscendo persone che mi trasmettono sensazioni interessanti. All’ispirazione segue la visione globale, mentale delle immagini che poi daranno vita, nella fattispecie, al cortometraggio”.

Dietro un’idea ispiratrice c’è sempre la necessità di comunicare un messaggio oppure capita che la casualità conduca le immagini fino a colpire intimamente chi le guarda?
“In tutto quello che realizzo ho la necessità di inserire un messaggio importante a livello esitenziale, sociale, talvolta politico. Questo fa parte un pò del mio “pessimismo cosmico”. Sono cresciuto ascoltando la musica di De Andrè e il teatro canzone di Gaber e questi sono i miei punti di riferimento avendone raccolto – a loro insaputa – l’eredità. Preferisco far riflettere piuttosto che far divertire”.

Quanto è penalizzante dover condensare tematiche importanti in un tempo così ridotto come quello che è tipico del cortometraggio?
“Ho la fortuna di avere il dono della sintesi e in passato ho scritto diversi racconti brevi e poesie; questo mi avvantaggia nel riuscire ad esprimere un concetto seppur complesso in poco tempo attraverso la metafora per esempio. Proprio per questo tipo di difficoltà il cortometraggio rappresenta un’ottima palestra; basti pensare che molti registi di rilievo hanno iniziato dal corto prima di arrivare al lungometraggio”.

Raggiungere l’equilibrio tra tecnica e passione nel tuo tipo di lavoro quanto è difficile?
“Conosco i miei limiti tecnici e anche quelli narrativi per cui riesco a gestire entrambi gli aspetti. Ma l’obiettivo resta sempre dare la giusta attenzione ai contenuti prima che ai mezzi che si hanno a disposizione per realizzare un’opera. Certo non potrei fare a meno di curare l’aspetto fotografico che rappresenta un caposaldo del genere cinematografico di cui mi occupo”.

Una delle tue “creature” che mi ha particolarmente attirato è ‘Il Maltolto’, un lavoro che sia per tematiche che per ambientazione e costumi rappresenta qualcosa di audace nel panorama globale dei cortometraggi.
“Si tratta di un corto realizzato nell’ambito di uno dei laboratori di cinema che periodicamente organizzo, in particolare la quinta edizione di ‘Short Movie’. In quella occasione decisi di realizzare un’opera in costume sfruttando il fatto che due delle partecipanti al laboratorio avessero un atelier di costumi d’epoca. L’ambientazione, pertanto, è quella di fine Ottocento; la location una casa stupenda di Ferrazzano messa a disposizione da Paolo Colesanti. Le tematiche raccontate sono la condizione femminile dell’epoca, la superstizione, la sopraffazione e il disagio subito dalla donna in una società maschilista”.

Ho provato ad accostare ‘Il Maltolto’ all’altra tua opera “A world in silence”: in entrambi i casi la parola si fa da parte per lasciare spazio alle immagini e ai suoni. Cosa prediligi curare tendenzialmente: i dialoghi o la colonna sonora?
“Qualora si tratti di un laboratorio non si può pretendere di affidare un copione agli allievi per ovvi motivi; pertanto preferisco investire sulle immagini, sulle espressioni mimiche e sui suoni. A prescindere da questa considerazione particolare mi piace produrre qualcosa che parli per immagini; se operi in un certo modo la parola può diventare addirittura superflua”.

Che cos’è il silenzio per te?
“Il silenzio in alcuni caso è d’obbligo! Spesso tutti parliamo senza pensare che sarebbe meglio tacere. E questa è la mia visione antropologica del silenzio. In natura, poi, esso rappresenta uno stimolo comunicativo ed espressivo da non interrompere.”

Tra i vari temi che hai affrontato c’è anche quello sempre attuale della violenza sulle donne.
“Questo tipo di violenza esiste da sempre. Io ho voluto mostrare quello che le donne a volte nascondono per una sorta di complicità involontaria. Oggi la donna è spesso portata a voler assomigliare ad uno stereotipo che la società maschilista impone e inconsapevolmente ne subisce danni drammatici. Si tratta di uno stupro psicologico che si attua attraverso una continua immissione di corpi femminili nella pubblicità, in televisione che tende ad annichilire la bellezza stessa in un sottobosco di storture. Se la donna non inizia a coltivare la capacità, la cultura, la coscienza, la dignità di comprendere che apparire in un determinato modo spesso non è una sua volontà ma una decisione altrui continuerà a subire questa imposizione malcelata”.

Cosa rovina il cinema e la società oggi?
“La volgarità. Credo che questa sia l’epoca della volgarità. Sono stati realizzati dei film dal profilo bassissimo che rappresentano una sconfitta per l’arte cinematografica che da sempre riflette la realtà e la società che descrive”.

Nella carrellata dei tuoi titoli ce n’è uno che mi ha letteralmente coivolto i sensi: ‘Fucking World’. Un minuto e mezzo denso, una sequenza frenetica che già alla prima visione conduce lo spettatore dalla curiosità all’ansia, fino ad arrivare a quel fastidio “positivo” degli ultimi secondi che portano ad un’apnea vera e propria. Come nasce questa idea?
“Dall’esigenza di abbattere qualche luogo comune, di provare a guardare il mondo al contrario. Nella fattispecie, attraverso la magnifica performance di Salvatore De Santis, siamo riusciti a tradurre in immagini l’ansia di un quotidiano fatto di nulla, l’alienazione, la falsità di alcuni valori che non sono tali, in un sussulto di rabbia e ribellione. Alla fine giunge la rivalsa e il protagonista del corto la esaspera attraverso una sorta di “suicidio al contrario” rappresentato da una fucilata metaforica verso l’occhio della telecamera. Tutto questo vorticosamente, attraverso 180 clip della durata di un secondo ciascuno o addirittura meno: uno stratagemma psichedelico, caotico che unito alle parole raggiunge un livello ansiogeno che produce l’effetto desiderato. E’ stato un corto accolto dalla critica, in particolare da Leopoldo Santovincenzo che lo ha elogiato come uno degli esperimenti più riusciti negli ultimi dieci anni nell’ambito del cortometraggio italiano. Poi mi ha fatto piacere che un gallerista turco lo abbia voluto presente come una sorta di installazione video ad Istanbul”.

Oltre alla tua attività di filmaker non hai risparmiato incursioni in ambito teatrale; uno dei testi a cui hai messo mano parlava di Apocalisse. Parlaci di quella esperienza e di quanto invece oggi siamo davvero in un’era apocalittica.
“L’apocalisse (quella che mi preoccupa) è iniziata dall’industrializzazione in poi ponendo le basi per un’autodistruzione irreversibile. Ma non voglio approfondirmi oltre. Per quanto riguarda invece lo spettacolo a cui ho lavorato insieme a Palma Spina si trattò di una rappresentazione ispirata proprio alla leggendaria profezia Maya sulla fine del mondo nel 2012. Mettemmo in scena due fortunate repliche presso il Teatro Savoia di Campobasso grazie a tanti bravissimi attori. Una bella esperienza grazie anche ai validissimi attori che la resero possibile”.

Tu vivi e operi in Molise: croce o delizia?
“In realtà il mio modo di fare cinema non è legato a un territorio, non faccio cose contestualizzate, parlo di argomenti che appartengono all’umanità in generale. Pertanto non mi sento limitato dalla regione in cui vivo. Quello che spesso limita, invece, è la carenza di interlocutori e di confronto per poter crescere professionalmente”.

Esprimi un desiderio.
“Con il rischio di essere anche io tra quelli colpiti auspico l’annientamento totale dell’idiozia”.

Questo è William: un creativo coerente, una persona a cui non piace essere personaggio, un rispettoso dell’arte e un filosofo nel senso etimologico del termine: desiderare di sapere per riuscire a comunicare. Senza riserve. Anche questo è imparare l’arte.

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‘Impara l’arte’ presenta Alessia Pallotta: il teatro del necessario https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-alessia-pallotta-il-teatro-del-necessario.html https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-alessia-pallotta-il-teatro-del-necessario.html#respond Tue, 01 Sep 2015 04:42:46 +0000 https://www.cblive.it/?p=27925 In una sera non troppo lontana ho smesso di conoscere il nome di Alessia Pallotta come un rigo qualsiasi di una qualsiasi locandina teatrale e l'ho apprezzata finalmente in azione: è stata una fortuna sedere a pochi metri dalla scena e poterne cogliere ogni singolo dettaglio espressivo. Alessia è un'attrice fatta di spigoli che sanno colpirti e angoli che sanno accoglierti; e la dote che la rende piacevole in platea è il suo saper miscelare questi due estremi con magistrale equilibrio. Alessia è una donna che sa parlare col corpo e muoversi con la voce. L'ho incontrata a casa sua in un pomeriggio di questa estate.

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Sergio Marchetta
Sergio Marchetta

SERGIO MARCHETTA

In una sera non troppo lontana ho smesso di conoscere il nome di Alessia Pallotta come un rigo qualsiasi di una qualsiasi locandina teatrale e l’ho apprezzata finalmente in azione: è stata una fortuna sedere a pochi metri dalla scena e poterne cogliere ogni singolo dettaglio espressivo. Alessia è un’attrice fatta di spigoli che sanno colpirti e angoli che sanno accoglierti; e la dote che la rende piacevole in platea è il suo saper miscelare questi due estremi con magistrale equilibrio. Alessia è una donna che sa parlare col corpo e muoversi con la voce. L’ho incontrata a casa sua in un pomeriggio di questa estate.

Com’è sbocciata la storia d’amore tra te e il teatro? A partire da una serie di incontri e sicuramente dalla lettura. Io ho sempre letto di tutto senza tralasciare nessun genere letterario e alternando periodi di immersione intensa nei libri ad altri nei quali leggevo con minore costanza. Ma ad un certo punto ho compreso che il libro non mi bastava più e iniziava a insorgere in me l’esigenza di smettere di immaginare attraverso la lettura per iniziare a rendere “reale” la parola scritta. Perché accontentarsi di leggere il Piccolo Principe quando invece si può decidere di esserlo? E’ iniziato così il sentiero che mi ha condotto – una volta intrapresi gli studi universitari –  ad avvicinarmi al teatro vero e proprio attraverso dei corsi specifici. Prima di allora mi ero sempre e solo limitata a vedere, leggere, immaginare. Iniziare a vivere in una città come Roma, frequentare il corso di Laurea in Letteratura, Musica e Spettacolo mi ha stimolato molto a concretizzare stimoli e passione”.

Il teatro ti ha cambiata in qualche modo? In positivo senz’altro. Ma questo accade a chiunque si avvicini ad una forma d’arte. E’ la diretta conseguenza del “portare fuori” la propria essenza. Purtroppo questa necessità di esternare “ciò che si è” manca al giorno d’oggi; si preferisce tenere tutto dentro e  sacrificare la propria vera essenza pur di soddisfare le mille attività di cui è costellata la vita, le frenesie, le corse imposte dal tempo. Invece avvicinarsi all’arte insegna a fermarsi, a concentrarsi e a portare fuori tutta l’interiorità: questo aiuta a vivere con molta più positività”.

L’arte è una “cosa” per pochi? No, l’arte è per chiunque e per qualunque età. L’arte è per tutti, soprattutto per i bambini che imparano attraverso di essa a “costruire” e ad avere una visione diversa anche da adulti”.

Quando si crea quel flusso magico tra pubblico e attore? Nel ‘qui ed ora’ il teatro è una ricezione continua e reciproca tra chi recita e chi ascolta. Un colpo di tosse di una persona in platea arriva all’orecchio del personaggio sulla scena. Ed è in quel “qui ed ora” che l’attore “ascolta” quel tossire, riceve una risata, accoglie un’emozione. Ed è questa la regola che rende diversa ogni replica di uno stesso spettacolo. Come si cambia nella vita pur essendo sempre se stessi così un personaggio può cambiare sulla scena restando sempre lo stesso. È importantissimo per l’attore essere sempre ‘hic et nunc’ sul palcoscenico e per il personaggio cambiare in funzione della scena”.

L’improvvisazione fa parte della formazione dell’attore o è una dote innata? Imparare a recitare è partire dall’improvvisazione. A prescindere da cosa essa sia”.

Nel tuo percorso formativo la musica ha una grande rilevanza: quanto sono in simbiosi il teatro il suono? “Tutte le arti sono in simbiosi. Nel mio iter personale ho fatto un grande lavoro sul corpo; e il corpo si muove sulla base di una certa musicalità. Cercando la musicalità del proprio fisico, del proprio modo di camminare, di gesticolare, la musicalità della propria voce si trovano cose di se stessi in quanto attori e in quanto persone che non si scoprirebbero diversamente”.

Dunque il corpo riveste un’importanza rilevante per l’espressione teatrale? “Un attore che non ha un corpo “attivo” non agisce in scena e quindi non trasmette. E’ attraverso l’azione che il pubblico riceve per cui il corpo del personaggio è fondamentale. Questo non dipende dalla fisicità in senso stretto ma dalla capacità di far agire il proprio corpo. Anche nei laboratori teatrali di cui mi occupo distinguo una prima fase di pre-contatto (non ti conosco quindi non ti tocco), una fase di contatto a partire dallo sguardo e dalla conoscenza che – attraverso esercizi mirati – conduce alla terza fase di post-contatto che in un certo senso “abilita” alla scena. Il teatro è sicuramente un mezzo che agevola la quotidianità e aiuta a superare i limiti legati a problematiche di relazione corporea”.

Come vivi il silenzio? “Avendo una personalità in continuo movimento tendo a viverlo male. Quando mi fermo nasce la paura. Il silenzio è confronto con se stessi e fa paura però si può imparare a gestirlo”.

Il teatro è indossare una maschera o restare se stessi? “Credo che il teatro sia rimanere se stessi mostrando diverse facce, saper ricercare le diverse espressioni di se stessi per riuscire a donarsi al pubblico”.

Quanto è divertente fare teatro? “Tanto, tanto! Fare teatro ti offre la possibilità di essere e fare qualsiasi cosa. In realtà recitare non è tanto indossare una maschera ma vivere il proprio essere attraverso il personaggio. Nei laboratori che organizzo mi piace comunicare che il teatro non ha limiti: possiamo essere tutto! Come fanno i bambini quando animano il gioco. E se ci riusciamo da piccoli perchè non farlo da adulti? Bisognerebbe coltivare gli stimoli per non interrompere questo continuo allenarsi al “gioco teatrale”. Magari l’attore restasse sempre bambino affrontando il senso del pudore e della vergogna attraverso l’immediatezza tipica del fanciullo!”.

Quanto può metterti in crisi dover interpretare un personaggio? Tantissimo! Entrare in contatto con il teatro mette in crisi perchè devi superare i tuoi limiti per affrontare il personaggio senza sapere dove ti porterà questo viaggio”.

Hai mai avuto indecisioni o ripensamenti lungo il tuo percorso di formazione teatrale? Fondamentalmente questa è una tipologia di lavoro che offre soddisfazioni solo alla fine del percorso e non in corso d’opera. La vera soddisfazione rispetto ad uno spettacolo non si ha quando ne nasce l’idea e nemmeno quando lo si mette in scena la prima volta bensì dopo l’ultima replica. Forse. Di fronte a queste dinamiche apparentemente frustranti si può anche decidere di abbandonare; ma se lasciare il teatro ti fa stare male dentro, se senti di aver eliminato una parte della tua stessa vita non riuscirai mai a rinunciare veramente”.

Il coraggio di decidere che il teatro debba essere per te lavoro e vita, nonostante la crisi che investe l’arte in genere, da dove ti arriva? “Non ne ho la più pallida idea. In realtà non è coraggio ma necessità!”.

L’innesco di tutto il tuo percorso teatrale è stata la lettura. Quanto conta oggi per te leggere? E quante volte ti è passato per la mente di scrivere di tuo pugno un testo teatrale? “Per mestiere sono sempre portata a leggere per studiare. Quando invece non riesco a leggere perché ho da dire qualcosa di mio mi capita di scrivere. Il testo di “Don’t panic!” per esempio l’ho scritto durante una notte insonne; non riuscivo a “liberarmi” attraverso il corpo e allora ho dovuto scrivere per esprimermi. Scrivo quando sento la necessità di immobilizzare un’immagine o quando sono sovraffollata di pensieri”.

Si scrive per il teatro sempre con l’intento di dover piacere al pubblico, soddisfarlo? “Assolutamente no. Anche perché io non conosco il pubblico né i suoi gusti. La platea varia ogni volta. Si scrive prima di tutto per se stessi”.

Perché ti definisci un’”operatrice teatrale” anziché un’attrice? Perché io non sogno di diventare “qualcuno”; io voglio diventare “me”. La mia ambizione è quella di arrivare a realizzare la mia persona attraverso il teatro in quanto mezzo e non fine. Attualmente non riesco a darmi una definizione e non saprei assolutamente dirti come mi immagino tra dieci anni ma nemmeno tra dieci giorni. Mi piacerebbe dire a un certo punto della mia vita: “Ecco, io sono questo e sono fiera e contenta di ciò che sono diventata!”.

Al di là dei sogni, al di là delle definizioni Alessia ha la fortuna di custodire il segreto semplice ma profondo del teatro e della vita: coltivare il “qui ed ora” con tenacia e col sorriso di chi sa sperare. Il palcoscenico e il sogno sono due complici che si nutrono a vicenda.

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‘Impara l’arte’ presenta Marilisa Picchione: esprimersi… a fior di pelle https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-marilisa-picchione-esprimersi...-a-fior-di-pelle.html https://www.cblive.it/rubriche/impara-larte-con-cblive-e-sergio-marchetta/impara-larte-presenta-marilisa-picchione-esprimersi...-a-fior-di-pelle.html#respond Tue, 18 Aug 2015 08:11:37 +0000 https://www.cblive.it/?p=27437 L'arte è libertà, sempre! A partire dall'ispirazione e fino alla realizzazione dell'opera. Oggi vi racconto l'incontro con un'artista che interpreta una delle forme espressive meno consuete ma decisamente pregne di simbologia e significato. Marilisa Picchione disegna ma non è una pittrice, usa l'inchiostro ma non è una scrittrice, immortala storie e desideri ma non è una maga: Marilisa è una tatuatrice.

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Sergio Marchetta e Marilisa Picchione
Sergio Marchetta e Marilisa Picchione

SERGIO MARCHETTA

L’arte è libertà, sempre! A partire dall’ispirazione e fino alla realizzazione dell’opera. Oggi vi racconto l’incontro con un’artista che interpreta una delle forme espressive meno consuete ma decisamente pregne di simbologia e significato. Marilisa Picchione disegna ma non è una pittrice, usa l’inchiostro ma non è una scrittrice, immortala storie e desideri ma non è una maga: Marilisa è una tatuatrice. Il tatuaggio – che si voglia o no – resta una delle forme artistiche più piacevolmente controverse, più dolcemente invasive per la sua stessa natura, più indelebilmente incomprensibile per chi non ci si avvicina con la giusta filosofia; eppure sempre affascinante.

Incontro Marilisa a Larino, nel suo studio dai toni delicati come il suo sorriso. La nostra chiacchierata può iniziare.

Come nasce in te la passione per il tatuaggio? “Il disegno è stata sempre una parte importante di me, fin da bambina. Poi durante il periodo delle scuole medie ho scoperto la passione per il tatuaggio, in un’epoca non molto lontana ma comunque in cui esso rappresentava ancora qualcosa di poco popolare. Naturalmente non immaginavo che sarebbe diventato il mio lavoro oltre che un sogno. Anzi, ci terrei a precisare che tatuare per me non è tanto un mestiere quanto uno stile di vita: anche se non fossi diventata una tatuatrice sarei comunque tatuata”.

Quanto tempo ti assorbe la tua attività? “Quasi tutta la giornata. Occupo parte del mio tempo preparando i disegni e impiego il resto a realizzare i tatuaggi. Poi dedico anche molto spazio al dialogo con i clienti, all’ascolto delle storie e dei motivi che spingono le persone a farsi tatuare. Potremmo dire che il mio studio talvolta diventa una sorta di confessionale. Questo significa che molti clienti diventano anche amici e amiche con cui il rapporto continua al di fuori degli incontri dedicati alla realizzazione del mio lavoro”.

Quanto è difficile soddisfare sempre le richieste dei clienti? “Occorre tanta pazienza ma parto dal presupposto che nessuna richiesta è fuori luogo se è dettata da un motivo valido e reale. In ogni caso se mi rendo conto che il tatuaggio che mi viene richiesto è solo un pretesto per dover apparire o se non ha una spinta personale all’origine io mi rifiuto. Mi è capitata ad esempio la richiesta di tatuare un disegno sul viso: ho detto di no”.

Hai mai conosciuto qualcuno che si sia pentito di un tatuaggio? “Certo! E sono tanti quelli che vengono a chiedere di “coprire” un tatuaggio perché eventi della vita portano a rinnegare il senso di quel disegno o semplicemente perchè il gusto estetico si è modificato con gli anni. Io però tendo sempre a “rinnovare” il tatuaggio più che a coprirlo in questi casi”.

Perchè ancora oggi il tatuaggio resta una sorta di tabù, di “etichetta” negativa? “In questo senso il mio lavoro è anche una missione che esercito per far comprendere che il tatuaggio è mille cose! Ma innanzitutto è un disegno e dunque una forma di arte vera e propria; comunque devo dire che oggi l’opinione comune rispetto al tatuaggio è molto migliorata. La conferma è che oggi le richieste di tatuarsi sono trasversali per fascia di età e livello sociale”.

Il rischio resta quello che diventi una mera moda? “Forse siamo già a questo livello, Per questo mi piace “indagare” sui motivi di una richiesta, parlare con le persone prima di mettere mano all’inchiostro”.

Esiste un’età per tatuarsi? “Assolutamente no. Mi capita sempre più spesso di tatuare anche ultrasettantenni”.

Essenzialmente il tuo lavoro ti porta ad avere un rapporto ravvicinato con il corpo: questo ti ha mai inibito o condizionato professionalmente? “Nel momento in cui sto facendo il mio lavoro tutta la concentrazione è dedicata a quel pezzo di pelle su cui sto tatuando. Come se stessi disegnando su una tela. Al contrario spesso riscontro l’imbarazzo o addirittura lo spavento nella persona che ho di fronte per cui torno a ripetere quanto sia importante il dialogo ancora prima di procedere nella realizzazione tatuaggio”.

Ti è capitato di ripetere lo stesso tatuaggio su persone diverse? “Purtroppo la moda porta anche a questo. Magari provo a differenziarli con un particolare”.

Un tatuaggio può essere fatto in un posto ‘nascosto’? “Il tatuaggio nasce per essere mostrato e non deve essere nemmeno troppo minuscolo (anche per motivi tecnici). Se riscontro indecisione in questo senso provo a parlarne con il cliente e a trovare un compromesso. Non preferisco attingere dal catalogo: il tatuaggio deve nascere da un’idea e da una spinta personale”.

Essere donna è penalizzante rispetto a questo tipo di lavoro? “Ritengo di no. Qualche volta, soprattutto all’inizio della mia carriera, mi è capitato di clienti che sottovalutavano il mio parere o un mio suggerimento; adesso non più: questo è la mia arte!”.

Quanti tatuaggi hai addosso? “Attualmente ne ho diciassette; siccome il primo l’ho realizzato 17 anni fa posso dire di averne fatti mediamente uno all’anno. Una coincidenza simbolica. In realtà si stanno “legando” l’uno con l’altro per cui più che contare quanti ne sono mi piace ricordare i diversi periodi in cui ho deciso di farli”.

Sei tu l’autrice dei tuoi tatuaggi? “Certo! A parte tre che tecnicamente erano impossibili da fare autonomamente per la loro posizione li ho realizzati tutti io”.

Ti capita di sentirti “osservata” per i tatuaggi che ti ricoprono? “Se accade sinceramente non ci faccio caso”.

Tu disegni da sempre. Quando hai deciso di cominciare a sviluppare i tuoi soggetti non più solo su carta o su tela bensì sulla pelle? “Nel momento in cui mi sono tatuata la prima volta, sperimentando la sensazione dell’ago sulla pelle; un’esperienza che – curiosamente – mi ha rilassato e succede ogni volta. Non avverto dolore. Così è nata la mia passione e da lì è iniziata la mia strada”.

Hai un tuo stile personale? “La clientela ti impone di essere versatile e saper fare di tutto. Comunque la mano si riconosce, come in un’opera d’arte non firmata. E’ una questione di stile, appunto”.

Cosa significa sognare per te? “In quello che faccio c’è tanta fantasia e la fantasia è sogno, creatività. Io ho soddisfatto un mio grande sogno iniziando a fare la tatuatrice”.

Se ti dovessi simbolicamente definire con un tatuaggio, quale immagine sceglieresti? “Un teschio. Un teschio allegro. Dolce ma teschio. E’ una figura che mi accompagna e attira da sempre ma in modo sdrammatizante, come per esorcizzare qualcosa di triste con una declinazione più spensierata. Il tatuaggio stesso fa parte di te, fino alla fine”.

L’arte della memoria: mi piace definire così il tatuaggio dopo averne parlato con Marilisa. Come se la decisione di imprimere sulla propria pelle un segno, un sogno, un passaggio di esistenza fosse la scelta consapevole di fermare il tempo attraverso l’inchiostro come in una sfida alla memoria che l’età affievolisce. Il corpo può imparare a parlare anche attraverso un tatuaggio: che non siano mai parole inutili!

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